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Il segmento testuale La Penna è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 27Analitici , di cui in selezione 3 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Sebastiano Timpanaro, Il Marchesi di Antonio La Penna in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA
1. Marchesi, la filologia tedesca, il marxismo. — Nel maggio del 1979, in un convegno per il centenario della nascita di Concetto Marchesi e di Manara Valgimigli, Antonio La Penna lesse una relazione sulla formazione di Marchesi come critico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista[...]

[...]tico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista (e poi comunista) con una sincera esigenza di giustizia e di elevazione culturale per i diseredati e gli oppressi, eppure legato a una concezione aristocratica della vita e a un senso dell'arte come creazione assolutamente individuale; angosciato dal dubbio esistenziale, dal « mistero », da un bisogno di fede religiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate dal comunismo[...]

[...]igiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate dal comunismo « ufficiale »; ostile all'aridità del « filologismo », eppure, quando si dedicava a lavori filologici, seguace proprio di una filologia « arida », senza ricerca di connessioni con la storia politicoculturale e la critica letteraria. Giustamente il La Penna ritiene (p. 93 s.) che queste ed altre contraddizioni, se devono essere francamente messe in rilievo e criticate, non per questo inducano a un giudizio svalutativo su Marchesi:
Ci sono personalità coerenti, in cui la coerenza è facilitata dalla povertà spirituale; ce ne sono altre ricche e incoerenti, in cui l'incoerenza è aggravata dalla ricchezza stessa: Marchesi è tra queste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interpretare Marchesi, che fu cosí attento alle inquietudini, alle incoerenze, alle contraddizioni dell'animo umano. Neppure ne[...]

[...]ste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interpretare Marchesi, che fu cosí attento alle inquietudini, alle incoerenze, alle contraddizioni dell'animo umano. Neppure nel giudizio morale, per es. a proposito dei giuramenti prestati alla monarchia e poi al regime fascista o della sua permanenza nel rettorato dell'Università di Padova sotto la repubblica fascista, è lodevole ricorrere a for
* A. LA PENNA, Concetto Marchesi: la critica letteraria come scoperta dell'uomo; con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia (« Biblioteca di cultura », 152), 1980, pp. 138.
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zature per giustificare tutto: guardiamo Marchesi come egli guardò Seneca, cercando di capire, non di condannare o giustificare tutte le sue debolezze. Chiunque discute di queste cose, dovrebbe prima leggersi il suo saggio su Seneca.
Ogni studio critico, ma piú che mai uno studio su una personalità di questa natura, esige da parte dell'autore la compresenza di due doti e di due atteggiamenti: da[...]

[...] se ne è fatta troppa, da parte cattolica e da parte comunista, anche se, per esempio, l'amore di un Ezio Franceschini per la memoria del maestro è cosí caldo . e puro da rendere degne di rispetto certe evidenti forzature); dall'altro una convinzione che, al di là di aspetti caduchi, il personaggio preso in esame ci abbia lasciato insegnamenti importanti, abbia arricchito la nostra cultura e la nostra umanità.
A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse piú ovvio e comprensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione positiva. Gran parte dell'opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustapposizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere l'opera letteraria nell'ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimento, di intendere storicamente, non come pure « illuminazioni » prive di antecedenti, anche i valori stilistici, formali della poesia, e l'esigenza marxista di collegare i fatti letterarioculturali e ideologici con la struttura economicosociale e con le istituzioni e le vicende [...]

[...]Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere l'opera letteraria nell'ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimento, di intendere storicamente, non come pure « illuminazioni » prive di antecedenti, anche i valori stilistici, formali della poesia, e l'esigenza marxista di collegare i fatti letterarioculturali e ideologici con la struttura economicosociale e con le istituzioni e le vicende politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l'eredità hegeliana, ad accentuare l'istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo disgregato e agnosticizzante). La Penna stesso ha piú di una volta, fin da anni lontani, battuto l'accento su questa caratteristica della propria personalità di studioso (cfr. ad es. « Belfagor » y, 1950, p. 587 ss.; Testimonianze per un centenario: contributi a una storia della cultura italiana 18731973, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 125127).
Per questo aspetto, si può ben dire che La Penna si trova in una posizione del tutto antitetica a quella di Marchesi. In Marchesi storico del mondo latino c'è una passione politica che dà spesso origine a giudizi acuti, ma non c'è alcuna seria presa di contatto col marxismo (cfr. La Penna, p. 13). Ancor maggiore è l'estraneità a quell'indirizzo filologico « wilamowitziano » a cui abbiamo accennato poc'anzi. In Marchesi il fatto poetico ha i propri antecedenti solo nell'esperienza sentimentale, nella psicologia e nella biografia del poeta, non nella lettura di poeti precedenti, nella tradizione culturale a cui il poeta appartiene (La Penna, pp. 37, 55 s., 73 s., 93).
Nella prolusione padovana del 1923 Filologia e filologismo (in Scritti minori, Firenze 1978, rii, p. 1233 ss.: d'ora innanzi indicherò, seguendo il La Penna, questa silloge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
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fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (anche il positivismo aveva avuto, nelle scienze naturali e umane piú ancora che nella filosofia, i suoi uomini d'ingegno e di genio) e che, comunque, era stato già superato proprio dalla migliore filologia tedesca (se con qualche seria ricaduta in un discutibile neoumanesimo e nazionalismo, non import[...]

[...]onde, che dimostrerebbero un effettivo rapporto di dipendenza (SM, in, p. 1234 s.; tale distinzione era stata enunciata anche in scritti precedenti, cfr. per es. SM, III, p. 1113: « sono solo le affinità formali gl'indizi imponenti delle derivazioni »). Ma è uno spunto che rimane inutilizzato o male utilizzato: lo studio del 1908 sulle fonti del Tieste di Seneca (SM, II, p. 493 ss.) prende in esame, sí, analogie di espressione, ma giustamente il La Penna (p. 23) lo giudica « poco piú che un elenco arido »; migliore è qualche altra ricerca (La Penna, p. 23 s.); ma Marchesi, critico pur non privo di senso stilistico, era piú capace di caratterizzare globalmente lo stile di uno scrittore che di analizzarlo puntualmente (egli cita quasi sempre passi tradotti, non testi in latino; e quanto anche la piú bella traduzione sia inadeguata a sostituire l'interpretazione non fu mai del tutto chiaro a lui, mentre fu chiaro, fin da Filologia e storia, a Giorgio Pasquali)1; e quindi era poco sensibile a quel rapporto di zêlos, di « citazioneemulazione », che piú tardi Pasquali teorizzerà con la massima limpidezza nel saggio Arte allusiva del 1942, ma [...]

[...]Marchesi, e tra i due studiosi ci fu sempre reciproca
I G. PASQUALI, Filologia e storia (1920), nuova ed. a cura di A. Ronconi, Firenze 1964, capp. vvi. Ma già Moriz Haupt aveva sentenziato con ragione, benché con una certa paradossalità: « Das Ubersetzen ist der Tod des Verständnisses » (in Ch. BELGER, M. Haupt als akademischer Lehrer, Berlin 1879, p. 248). Anche nei commenti scolastici a classici latini — pur pregevoli per molti aspetti: cfr. LA PENNA, p. 82 — una manchevolezza, secondo me, è costituita dal fatto che Marchesi si limita per lo piú a tradurre singole parole o brevi frasi, mentre è molto avaro di altre delucidazioni (questo suo modo di commentare è da lui stesso dichiarato e difeso nella prefazione ad APULEIO, Della Magia, Città di Castello 1914; maggiore consapevolezza dell'ufficio di prima approssimazione a cui la traduzione deve limitarsi è nella prefazione al Bellum Catilinae di Sallustio, Messina 1939, p. v.). Su Marchesi mediocre traduttore in versi, ottimo in prosa (e ben presto egli predilesse la prosa, discostandosi [...]

[...]esto suo modo di commentare è da lui stesso dichiarato e difeso nella prefazione ad APULEIO, Della Magia, Città di Castello 1914; maggiore consapevolezza dell'ufficio di prima approssimazione a cui la traduzione deve limitarsi è nella prefazione al Bellum Catilinae di Sallustio, Messina 1939, p. v.). Su Marchesi mediocre traduttore in versi, ottimo in prosa (e ben presto egli predilesse la prosa, discostandosi dalla linea RomagnoliBignone), cfr. LA PENNA, p. 37 s. e, piú ampiamente, E. PIANEZZOLA nel vol. collettivo La traduzione dei classici a Padova, Padova, Antenore, 1976, p. 23 ss. Fra le poche traduzioni in versi riuscite, giustamente il Pianezzola (pp. 3638) cita e riporta la monodia di Tieste nell'omonima tragedia di Seneca e una parte del coro delle Troades sulla morte come annullamento.
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incomprensione, credo anche antipatia personale. Forse l'unica allusione a Pasquali (finora, che io sappia, non notata) si trova appunto in Filologia e filologismo, e riguarda ancora quella che a Marchesi sembrava una stortu[...]

[...]re d'ingegno » che essa rivela: Marchesi tende addirittura a forzarne il carattere antierudito, ad affermare che si tratta di « un'opera, piú che critica, artistica », il che è conforme piú agli ideali di Marchesi stesso che alle intenzioni e alla realtà del volume del Leo. Anche in Filologia e filologismo (SM, III, p. 1241), fra tante riserve e censure riguardo alla filologia tedesca, spicca un alto riconoscimento del valore del Leo. Osserva il La Penna (p. 55) che questa « è un'eccezione che non incide troppo sull'atteggiamento generale », ed è vero. Ma su un punto la lettura del Leo influí positivamente su Marchesi: sulla valutazione di Plauto, poeta di grande originalità, ma non popolaresco in senso immediato e triviale, bensí dotato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenist[...]

[...]o romantico del poeta « sublime ignorante », ma perché tra cultura e poesia rimaneva secondo lui, come si è detto, un iato). La lettura di Leo non solo non ha spinto Marchesi a rivedere il proprio metodo critico, ma, cosa alquanto strana, non ha nemmeno influito sulla sua visione dell'intera letteratura arcaica latina, che rimane particolarmente infelice (basti pensare all'incomprensione per Ennio, su cui vedi le osservazioni giustamente dure di La Penna, p. 76, e per
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Terenzio). E del resto su Plauto stesso il Marchesi non ha pressoché nulla di originale da dire: il capitolo della Storia su Plauto rimane un esempio di buona assimilazione di idee altrui. Valeva, credo, la pena di notare come fatto pur sempre positivo tale assimilazione; ma il giudizio complessivo di La Penna sulla mancanza di senso della storicità del fatto artistico, sulla carenza di Kulturgeschichte in Marchesi rimane del tutto valido, e non era stato finora notato con tanta lucidità.
2. Il criticoartista. — Abbiamo accennato che meno ovvi possono apparire i motivi per cui, nonostante le forti differenze di impostazione metodologica (a cui si aggiungono diversità non meno notevoli di idee politiche e di Weltanschauung), La Penna è portato a simpatizzare con certi aspetti assai significativi della critica letteraria di Marchesi. Ma bisogna tener conto del fatto che la sintesi di filologia tedesca e di marxismo (o, come da qualche tempo egli preferisce dire, di « empiriomaterialismo ») non esaurisce il compito che La Penna si prefigge in quanto studioso del mondo antico (e non di esso soltanto). Egli ritiene che dovere del critico sia anche esprimere giudizi di valore sull'opera d'arte, contribuire a far partecipi gli altri di quella felicità (la felicità, secondo lui, più profonda e intensa concessa all'uomo) che è data appunto dall'arte, pur con la certezza che il giudizio estetico, come tutti i giudizi di valore, è soggettivo e che ufficio del critico non può essere, quando si arriva alla valutazione, quello di « convincere », ma solo quello di « persuadere ». Che la ricostruzione storica (passibile di tratt[...]

[...]ppunto dall'arte, pur con la certezza che il giudizio estetico, come tutti i giudizi di valore, è soggettivo e che ufficio del critico non può essere, quando si arriva alla valutazione, quello di « convincere », ma solo quello di « persuadere ». Che la ricostruzione storica (passibile di trattazione « scientifica », almeno tendenzialmente) e il giudizio valutativo debbano essere condotti in stretto rapporto l'una con l'altro, aiutarsi a vicenda, La Penna lo afferma con forza; ma con altrettanta forza rifiuta di cancellare la distinzione tra discorso teoretico e discorso assiologico: questa sua posizione, già espressa con sferzante vigore in due noterelle che non molti avranno letto (Estetica meretrice e Sono forse un estetizzante?, in « Rassegna Pugliese », vi, nn. 89, agostosettembre 1971, nella rubrica Katà leptón), è ribadita in un capitolo della Storia d'Italia Einaudi (y 2, Torino 1973, p. 1344 s., dove tuttavia si mette anche in guardia contro una « semplicistica dicotomia fra logica e retorica », e si scorge un pericolo di questo gener[...]

[...] da parte del critico sul lettore, il quale finirebbe col rinunciare a un proprio precedente giudizio non perché errato o insufficiente (di giudizio errato non si può parlare se il giudizio è sempre soggettivo e, come tale, inconfutabile), ma solo per la propria « mi
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nore bravura » a difenderlo contro il critico. Ma non è questa la sede per cercar di sviluppare questa mia opinione. Qui si deve rimanere aderenti al tema La PennaMarchesi. E si deve constatare che il vivo amore di La Penna per la poesia, unito al ben giusto fastidio per recenti indirizzi di studio della letteratura che non sono né « scientifici » né « assiologici », ma hanno soltanto delle velleità scientistiche che si riducono a ostentazioni terminologiche dietro le quali non c'è alcuna vera conquista concettuale, ha fortemente contribuito a fargli scorgere i pregi di un criticoartista come Marchesi (diciamo anche di un criticoretore, senza tuttavia dare all'epiteto un significato soltanto svalutativo e senza affatto pretendere di racchiudere in questa definizione una personalità eticamente e psicologicamente [...]

[...]nte contribuito a fargli scorgere i pregi di un criticoartista come Marchesi (diciamo anche di un criticoretore, senza tuttavia dare all'epiteto un significato soltanto svalutativo e senza affatto pretendere di racchiudere in questa definizione una personalità eticamente e psicologicamente cosí complessa). Qualche citazione ci farà meglio capire il fascino che, malgrado tutte le riserve già accennate e altre che accenneremo, Marchesi esercita su La Penna:
Chi riduce la critica a disquisizioni metodologiche, potrebbe parlare, con sarcasmo, di arti f ex additus artifici; sia pure; ma, se l'arti f ex additus è un artista autentico, perché dovremmo rifiutare i nuovi doni delle Muse? (p. 40).
Egli [...] rimane come uno dei maggiori criticiartisti che abbia avuto il Novecento italiano [...1. Per quante differenze ci dividano, nella concezione storica e nel metodo, dalla critica della prima metà del secolo, ricordo Marchesi, Valgimigli, Perrotta come uomini che sapevano ricevere i doni delle Muse con mani delicate; né a quel tempo né prima né dopo[...]

[...]ra in lui, e che è anche (esso, e non il poeta in quanto altro individuo empirico) il creatore dell'opera d'arte. Marchesi non aveva dimestichezza con questi filosofèmi (al suo antifilosofismo accenneremo in séguito); non credeva (in questo con piena ragione) in un io empirico mera parvenza e in un Io assoluto vera realtà. Ma era intimamente convinto che il buon gusto fosse, per ripetere un'espressione che abbiamo visto usata metaforicamente dal La Penna, un « dono delle Muse » largito a spiriti eletti: poeta et criticus nascuntur, non
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fiunt. E di questa aristocratica certezza di possedere il buon gusto si appagava, senza sentire il bisogno di motivarla. Nei momenti in cui si sentiva socialista o comunista (di momenti bisogna parlare, proprio perché il suo comunismo non era né teoricamente fondato, né basato su una militanza costante) vagheggiava un'umanità alla quale, tutta, i doni delle Muse potessero essere elargiti; ma questa era, in fondo, una speranza lontana e tutt'altro che certa; e se qualcuno gli avesse parlato di distinzione tra
« convincere » e « persuadere », il suo antiscientismo e la sua stessa vocazion[...]

[...] una speranza lontana e tutt'altro che certa; e se qualcuno gli avesse parlato di distinzione tra
« convincere » e « persuadere », il suo antiscientismo e la sua stessa vocazione retorica lo avrebbero indotto a rispondere che il « persuadere » è via alla verità (alla verità umanamente calda, non alla gelida e presuntuosa
« esattezza ») piú sicura e feconda che il « convincere ».
Confesso che, proprio per questo carattere di criticoartista che La Penna ha cosi bene individuato in Marchesi, io sarei stato piú cauto nell'accostarlo a De Sanctis, e forse non lo avrei accostato affatto. Intendiamoci: La Penna sa bene che c'è tutto un aspetto della critica desanctisiana (« il bisogno di stringere la storia della letteratura con la storia civile », p. 96) al quale Marchesi è sordo, e che vedere nell'arte un puro fatto soggettivo, extrastorico, significherebbe « rinnegare De Sanctis » (p. 95). E tuttavia « l'aspetto piú affascinante di Francesco De Sanctis » (p. 96) è da lui considerato « il gusto, la capacità di Ein f ühlung, l'arte mirabile con cui trascina l'ascoltatore nell'alone della sua Ein f ühlung » (p. 120, nel saggio aggiunto dedicato a Tommaso Fiore). « Il potere magico » che gli allievi [...]

[...]coloso: difficilmente riesco a concepire una « immedesimazione » che non sia in qualche misura inficiata da misticismo o da una sorta di forza di suggestione, che menoma la lucidità del giudizio. Esiste un De Sanctis eloquente, talvolta anche retore; ma esiterei molto a ravvisare soprattutto lí la sua grandezza. D'altra parte, l'eloquenza desanctisiana non si muove quasi mai in un ambito puramente estetico: nelle lezioni napoletane rammentate da La Penna il De Sanctis parlava della « scuola liberale » e della « scuola democratica », legava strettamente la storia politica alla letteraria, affiancava, d'altra parte, all'opera di storico un'attività di critico militante, per il « reale » contro l'« ideale », per una cultura dell'Italia unita borgheseavanzata con forti cautele « antiutopistiche ». Se nell'immediato dopoguerra si esagerò in « desanctisismo di sinistra », fu perché non si videro i limiti (d'indirizzo politico e, connessi con questi, anche di gusto estetico) di una prospettiva storica e critica che tagliava fuori Cattaneo, Pisacane,[...]

[...], di diverso clima socialeculturale) fu estraneo. Io temo che a questo ravvicinamento De SanctisMarchesi abbia contribuito una nozione di « critica romantica » assunta in un senso un po' troppo generico. Ciò che in seguito diremo su Marchesi « tardopositivista » contribuirà forse a distaccarlo ulteriormente dal De Sanctis. Ma anche rimanendo nella cerchia degli eventuali predecessori medioottocenteschi, direi che, pur con la giusta avvertenza di La Penna (p. 37: in Marchesi l'incontro con lo scrittore in quanto uomo « avviene sempre attraverso l'opera: non c'è traccia di curiosità biografiche più o meno futili, alla maniera di SainteBeuve »), l'affinità con SainteBeuve sia piú forte,
o meno debole, di quella con De Sanctis.
3. « Umanità perenne », arte, bisogno religioso. — Abbiamo già accennato che La Penna considera, giustamente, come un limite di Marchesi la concezione della poesia come espressione esclusiva dell'esperienza umana immediata del poeta, al di fuori di condizionamenti politicosociali e culturali. Ma altrettanto giustamente La Penna non nega che in questa concezione vi sia un aspetto positivo importante: la poesia è anche un
« fatto personale », non solo l'elaborazione di un'esperienza « libresca » né di una situazione sociale. C'è, egli dice, un'acquisizione della critica romantica e desanctisiana in particolare (non soffermiamoci piú su questi aggettivi: l'importante sta in ciò che La Penna rivendica) che va considerata come
« un'acquisizione perenne, un ktêma es ad: la critica deve cercare il contatto con lo scrittore in quanto uomo (cioè vita, sensibilità, stati d'animo, nodo piú o meno intricato di bisogni e di problemi morali, cultura ecc.) e cercare nelle forme retoriche l'espressione dell'uomo. L..] L'espressione letteraria passa attraverso l'uomo: non riesco ancora a capire una storia della letteratura senza soggetti, senza persone (la polemica di Althusser contro l'umanesimo ha alcune ragioni valide, ma gli esiti non convincono interamente) L..] ] Credo che anche la bio[...]

[...]ne dell'uomo. L..] L'espressione letteraria passa attraverso l'uomo: non riesco ancora a capire una storia della letteratura senza soggetti, senza persone (la polemica di Althusser contro l'umanesimo ha alcune ragioni valide, ma gli esiti non convincono interamente) L..] ] Credo che anche la biografia, a parte le curiosità futili, sia un passaggio obbligato » (p. 94 s.).
Mi sia lecito, en passant, esprimere la mia gioia nel vedere finalmente in La Penna una « presa di distanza » da Althusser, che in questi ultimi anni egli aveva considerato come il marxista piú originale dei tempi recenti: una presa di distanza, a mio parere, ancora insufficiente, poiché credo che su Althusser vada dato un giudizio ben piú duro (non mi pento di ciò che ho scritto in Sul materialismo, Pisa 19752, pp. 4546, 49, 188191, 250, 258 e altrove). Ma qui importa notare come La Penna abbia individuato uno dei punti piú importanti, direi anzi il punto centrale, della Weltanschauung di Marchesi e della sua opera di critico. All'esame di questo punto centrale egli dedica in particolare il cap. iv, « Homo » e « civis », che è forse il piú penetrante di tutto il volumetto.
In tutti i suoi scritti Marchesi ha profuso dichiarazioni di sfiducia nel potere, che la filosofia e la scienza si arrogano, di dare all'uomo la verità
e la felicità. Nessun filosofo « ci ha mai sorretto, aiutato, confortato »; nessuno ci ha dato il rimedio per « evitare l'insonnia, la miseria, la follia »[...]

[...]gli dedica in particolare il cap. iv, « Homo » e « civis », che è forse il piú penetrante di tutto il volumetto.
In tutti i suoi scritti Marchesi ha profuso dichiarazioni di sfiducia nel potere, che la filosofia e la scienza si arrogano, di dare all'uomo la verità
e la felicità. Nessun filosofo « ci ha mai sorretto, aiutato, confortato »; nessuno ci ha dato il rimedio per « evitare l'insonnia, la miseria, la follia »
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 639
(SM, ii, p. 669 s., in uno scritto del 1910: il passo, non breve, è tutto da leggere, e con ragione il La Penna, p. 35 s., ne sottolinea la centralità per capire Marchesi). Al pari della filosofia, la scienza « non potrà mai svelare l'arcano della vita » (Il poema di Lucrezio, Torino, « Quaderni ACI », [1950], p. 16). L'opera di Tacito « non teme fallimento: perché le idee cadono, solo il dubbio rimane » (Tacito, Messina 1924, p. 252; un po' diverso nell'espressione, ma non nel contenuto, in Tacitoz, 1942, p. 186); e nello stesso Tacito parlerà di « quella superstizione o finzione chiamata volgarmente la verità » (p. 295, cit. anche da La Penna, p. 68). Le citazioni — anche da scritti di varia lettera[...]

[...]a, la scienza « non potrà mai svelare l'arcano della vita » (Il poema di Lucrezio, Torino, « Quaderni ACI », [1950], p. 16). L'opera di Tacito « non teme fallimento: perché le idee cadono, solo il dubbio rimane » (Tacito, Messina 1924, p. 252; un po' diverso nell'espressione, ma non nel contenuto, in Tacitoz, 1942, p. 186); e nello stesso Tacito parlerà di « quella superstizione o finzione chiamata volgarmente la verità » (p. 295, cit. anche da La Penna, p. 68). Le citazioni — anche da scritti di varia letteratura e meditazione — si potrebbero moltiplicare.
Ciò che non possono dare filosofia e scienza, può darlo, anche se non interamente, l'arte. A volte (vedi l'accenno, forse troppo fugace, di La Penna, p. 36) sembra che l'arte, per Marchesi, sia dotata di quel potere gnoseologico, unificatore e inveratore di un'esperienza altrimenti caotica e contraddittoria, che una secolare tradizione attribuisce appunto alla filosofia (o alla scienza intesa come antiempirla, antiesperienza comune). La storiografia stessa raggiungerebbe la « verità » grazie alle doti artistiche dello storico, non ai vani sforzi di ricostruzione basati sulla ricerca documentaria. Questo concetto è espresso nell'introduzione al Bellum Catilinae di Sallustio (poi in Voci di antichi, Roma 1946, p. 41 ss.: « la voce dell'arte[...]

[...]a narrazione di episodi in tutto o in parte inventati; di fronte a un racconto liviano di particolare efficacia rappresentativa, Marchesi esclama: « A chi mai — se non a un infelice pedante — può venire in mente di chiedere se l'episodio sia nei suoi particolari abbastanza documentato? ». Si potrebbe obiettare che Marchesi stesso talvolta non crede ai suoi prediletti storiciartisti: rivaluta Catilina contro Sallustio, Tiberio contro Tacito (cfr. La Penna, pp. 9 s., 68 s., che giustamente mette in rilievo il notevole valore di queste rivalutazioni). Qui la passione politica « di sinistra » nel primo caso, una consonanza autobiografica con la tristezza di Tiberio nel secondo, hanno portato Marchesi a dissentire; ma a dissentire, se ben si guarda, mettendosi egli stesso in gara, come storicoartista e storicopsicologo, con Sallustio e con Tacito. E con ragione osserva La Penna (p. 69) a proposito del dissenso su Tiberio: « Neppure si può parlare di un'opposizione del critico al proprio autore; giacché Tacito ha ricevuto il personaggio di Tiberio dalla tradizione aristocratica, ma è stato lui a crearne l'anima; e nel crearne l'anima (possiamo aggiungere ricorrendo al concetto che il critico formulerà per Livio e Sallustio) ci dà attraverso l'arte la verità ». Nel Tacitoz (p. 243)
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Marchesi distingue tra il giudizio dello storico sui propri personaggi, che può essere falso, e la rappresentazione che egli ne dà « nel momento vivo dell'azione [...]

[...]tenzioni dell'autore.
Ma piú che alla storia politica e sociale (che, con insanabile contraddizione rispetto al suo socialismo, rappresenta per Marchesi sempre qualcosa di effimero e di angusto) l'arte dà il suggello della verità alla « natura umana », che è formata da individui, ciascuno diverso dall'altro, ma accomunati proprio dalla loro solitudine, finitezza, infelicità. Il rapporto tra arte e « natura umana » è (pur con oscillazioni che il La Penna nota a p. 35 e di cui indica felicemente la formulazione che piú sembra corrispondere alla prevalente convinzione di Marchesi) un po' diverso da quello tra arte ed eventi storici. La funzione, per cosi dire, caratterizzante e immortalante dell'arte rimane essenziale; tuttavia la « natura umana » non è una realtà disgregata e informe come la storia: è una realtà già ben concreta, che l'artista ha il compito di cogliere nei suoi tratti essenziali, non già di « creare ». L'umanità — di ciò Marchesi è profondamente convinto — ha « caratteri permanenti ». Il dolore, l'angoscia, il senso del mister[...]

[...]imostrare l'indimostrabile sugli ultimi istanti di vita di Marchesi; il Franceschini, non per quel meschino spirito di speculazione che ha indotto tanti clericali a inventare conversioni all'ultima ora, ma per una sofferta esigenza di sapere « salvato » il maestro e amico da lui amato con tanta dedizione, ha dato per dimostrata, in piena buona fede, una conversione che, da tutto ciò che sappiamo, non risulta documentabile 2. Ciò ritiene anche il La Penna (p. 52),
2 Va tuttavia notato che il libro di Franceschini non è « a senso unico »: vuol presentare come una certezza la conversione di Marchesi in punto di morte (dando a tutto il racconto dei suoi due ultimi giorni di vita un tono di « miracolo », anzi di intrecciarsi e susseguirsi di coincidenze miracolose, che non regge ad una riflessione pacata e obiettiva); ma nello stesso tempo è animato da una appassionata e dolorosa polemica contro le degenerazioni politicomorali del cattolicismo. Vale la pena di riportare la coraggiosa dedica: « A quei cattolici che con lo scandalo della loro vita [...]

[...]cconto dei suoi due ultimi giorni di vita un tono di « miracolo », anzi di intrecciarsi e susseguirsi di coincidenze miracolose, che non regge ad una riflessione pacata e obiettiva); ma nello stesso tempo è animato da una appassionata e dolorosa polemica contro le degenerazioni politicomorali del cattolicismo. Vale la pena di riportare la coraggiosa dedica: « A quei cattolici che con lo scandalo della loro vita privata
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il quale aggiunge con ragione che « per capire e valutare l'opera di Marchesi » questa eventuale conversione d'un agonizzante « non ha nessuna importanza ». Il Marchesi vivo, e non moribondo, fu un assetato di fede, ma non un possessore di fede. Nella conferenza già citata sul Poema di Lucrezio (p. 15 s.) diceva: « Sapienza e fede sono due luci di varia intensità: non sono due soluzioni. E il dolore dell'uomo resta immoto, se anche è rischiarato: se anche una favolosa felicità nella culla del sapiente o del santo faccia brillare le sue luci lontane ». C'è qui l'accenno vago ad una speran[...]

[...]da lui piú amato (cfr. Voci di antichi, p. 159 ss.) è Arnobio, un retore pessimista e materialista, piú lucreziano che cristiano, negatore dell'immortalità dell'anima.
4. L'« antiromanità » della letteratura latina. — Ci siamo, senza volerlo, discostati alquanto dal tema dell'« homo » et « civis »: dobbiamo adesso ritornarvi. Fin dai profili anteriori alle opere di maggior mole (i profili formigginiani di Marziale, Petronio, Giovenale, ai quali La Penna, con piena ragione, attribuisce importanza decisiva per la formazione del critico), Marchesi fa consistere il vero valore della letteratura latina non nell'esaltazione dei valori civici, nell'attaccamento al mos maiorum politico ed eticoreligioso, ma nell'appartarsi da questa romanità ufficiale, nell'esprimere quell'« umanità perenne » di cui si è detto. Questo criterio di valutazione resterà sostanzialmente costante anche piú tardi, anche nella Storia della letteratura latina. Ennio è svalutato (e frainteso) perché « chi si fa cantore delle glorie nazionali è poeta che impone alla propria fa[...]

[...]e quell'« umanità perenne » di cui si è detto. Questo criterio di valutazione resterà sostanzialmente costante anche piú tardi, anche nella Storia della letteratura latina. Ennio è svalutato (e frainteso) perché « chi si fa cantore delle glorie nazionali è poeta che impone alla propria fantasia limiti che l'arte non ha: ed è poeta destinato a morire ». Catullo e in genere i poetae novi sono amati (fin dal giovanile volumetto su Elvio Cinna, cfr. La Penna, pp. 56) in quanto disgregatori di valori tradizionali. Lucrezio è grande per la sua prospettiva cosmica e il suo senso doloroso della vita, per la sua implicita (e anche esplicita) svalutazione della partecipazione alla vita pubblica con le sue ambizioni e le sue meschinità 3. I poeti augustei, mediocri quando si fanno esaltatori della romanità e del principato, sono grandi quando evadono da queste strettoie: nel saggio su Virgilio del 1930, in polemica con la retorica del bimillenario virgiliano, Marchesi dice: « In un'opera di poesia che voglia essere di celebrazione storica e nazionale ci[...]

[...]cita (e anche esplicita) svalutazione della partecipazione alla vita pubblica con le sue ambizioni e le sue meschinità 3. I poeti augustei, mediocri quando si fanno esaltatori della romanità e del principato, sono grandi quando evadono da queste strettoie: nel saggio su Virgilio del 1930, in polemica con la retorica del bimillenario virgiliano, Marchesi dice: « In un'opera di poesia che voglia essere di celebrazione storica e nazionale ciò
3 Il LA PENNA (p. 75 s.) cita, dalla prima edizione della Storia, un paragone LucrezioVirgilio a favore di Virgilio. E replica: « No: sia per `vastità poetica' sia per intensità lirica Lucrezio non ha confronti nella letteratura latina: i poeti confrontabili bisogna cercarli fra i Greci o fra i moderni ». Ma quel paragone scompare nelle successive edizioni della Storia (non saprei precisare a partire da quale: certo nella quarta non c'è), e tutto ciò che Marchesi ha scritto su Lucrezio, dal saggio marzialiano del 1905 (SM, i, p. 189, cfr. LA PENNA, p. 31 s.) alla già citata conferenza del 1950, denota un'a[...]

[...]a favore di Virgilio. E replica: « No: sia per `vastità poetica' sia per intensità lirica Lucrezio non ha confronti nella letteratura latina: i poeti confrontabili bisogna cercarli fra i Greci o fra i moderni ». Ma quel paragone scompare nelle successive edizioni della Storia (non saprei precisare a partire da quale: certo nella quarta non c'è), e tutto ciò che Marchesi ha scritto su Lucrezio, dal saggio marzialiano del 1905 (SM, i, p. 189, cfr. LA PENNA, p. 31 s.) alla già citata conferenza del 1950, denota un'ammirazione superiore a quella per Virgilio (sul lucrezianesimo di Marchesi vedi anche qui sotto, paragrafo 6). Nel saggio su Virgilio del 1930 (in Voci di antichi, pp. 1112) il paragone è esplicitamente rovesciato a favore di Lucrezio. D'altra parte, mentre capisco bene come La Penna (ed io con lui, e, per ragioni in parte diverse, già Marchesi) possa collocare Lucrezio al vertice della letteratura latina per l'ideologia, non riesco a vedere una inferiorità di Virgilio sul piano artistico e piú generalmente umano. A certe altezze, credo che le graduatorie di valore siano arbitrarie;' e la grandezza di Virgilio, proprio La Penna, in uno dei suoi saggi piú perfetti, l'ha fatta intendere meglio di ogni altro.
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che continua a vivere è spesso quanto di antistorico e antinazionale inconsapevolmente ha messo il poeta » (Voci di antichi, p. 15; e ancora, p. 18: « Tutti victi, tutti sconfitti, in questo mondo virgiliano dominato dal dolore »). E cosi l'Orazio amato dal Marchesi non è l'Orazio « romano », ma l'Orazio « privato », scettico, antirigorista, saggio di una saggezza che è l'opposto della presuntuosa e dogmatica filosofia (rimane tuttavia strano che Marchesi si sia accorto troppo fuggevolmente dell'esistenza di un Orazio tutt'altro che « romano » anche nelle Odi; se ho ben visto, un capolav[...]

[...]esi non è l'Orazio « romano », ma l'Orazio « privato », scettico, antirigorista, saggio di una saggezza che è l'opposto della presuntuosa e dogmatica filosofia (rimane tuttavia strano che Marchesi si sia accorto troppo fuggevolmente dell'esistenza di un Orazio tutt'altro che « romano » anche nelle Odi; se ho ben visto, un capolavoro della lirica mondiale come Difugere nives, il cui valore non sfuggi a Perrotta e meglio ancora fu messo in luce da La Penna in « Annali della scuola normale » xviii, 1949, p. 32 sg., e aveva già suscitato la commozione profonda di un filologopoeta come Housman 4, non attrasse mai l'attenzione di Marchesi). Piú difficile era conciliare con questa prospettiva l'ammirazione (certo eccessiva, e talvolta sfociante in una certa retorica della romanità) per Livio come storicoartista; e tuttavia non manca nel capitolo della Storia dedicato a Livio una riserva (ii`, p. 19): « Livio è un patriotta insonne. Questa continua vigilanza e questo continuo amore di Roma ha tolto appunto alla sua opera la grande impronta umana e vi[...]

[...]oma ha tolto appunto alla sua opera la grande impronta umana e vi ha lasciato la meno grande impronta romana ».
È questa « antiromanità » che ha permesso a Marchesi di sentire e valutare con simpatia profonda e acuta intelligenza la letteratura postaugustea. Non per nulla, prima della Storia, gli autori sui quali scrisse i profili e i saggi piú penetranti sono alcuni dei maggiori postaugustei, in cui i valori patriottici sono ormai dissolti. Il La Penna mette bene in rilievo come anche uno scrittore fortemente legato ai valori della romanità, Tacito, sia ammirato da Marchesi per ragioni che puntano sull'homo e non sul civis: l'aristocratico disprezzo per il volgo, ma soprattutto il pessimismo storico e morale (cap. x); e come anche in Giovenale il critico sia affascinato, piú che dal rimpianto moralistico per i valori dell'età repubblicana, dalla capacità d'indagare, con indignata ma lucida amarezza, aspetti torbidi della psicologia umana che appartengono ad « ogni tempo » (p. 35). E anche Seneca, l'autore prediletto da Marchesi, è da lui, f[...]

[...]tata da Cu. O. BRINK in « Annali della Scuola Normale », ser. In, viii, 1978, p. 1225 s.
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chiunque altro da Scevola Mariotti, con l'alessandrinismo: cfr. « Belfagor » xx, 1965, p. 34 ss.) da un senso di crisi, di pessimismo, di saggezza dolorosamente conquistata, di rimpianto per una Roma primitiva ormai non piú resuscitabile. Io, nei capoversi precedenti, ho in parte citato passi di Marchesi diversi da quelli citati da La Penna, non per futile sfoggio, ma solo per far vedere come sia facile trovare sempre nuove espressioni di questo motivo che percorre tutta la meditazione di Marchesi sulla letteratura latina, dagli anni giovanili alla vecchiezza: aver dato a questo motivo il rilievo che gli compete è, ripeto, uno dei maggiori meriti del saggio di La Penna.
Certo, un'unica chiave, per quanto preziosa, non serve mai ad aprire tutte le porte. Anche a prescindere dalla letteratura arcaica, resta preclusa a Marchesi, nell'insieme, una personalità come quella di Cicerone (i motivi dell'anticiceronianismo di Marchesi si comprendono agevolmente, ma l'incomprensione, grave, rimane). Nella stessa età postaugustea, se la svalutazione di Persio è a mio avviso giustificata (su questo punto so di non poter consentire con l'amico La Penna; ma una discussione, ora, ci porterebbe troppo fuori tema), ingiusto, ancor piú ingiusto, credo, di quanto appaia a La P[...]

[...]iave, per quanto preziosa, non serve mai ad aprire tutte le porte. Anche a prescindere dalla letteratura arcaica, resta preclusa a Marchesi, nell'insieme, una personalità come quella di Cicerone (i motivi dell'anticiceronianismo di Marchesi si comprendono agevolmente, ma l'incomprensione, grave, rimane). Nella stessa età postaugustea, se la svalutazione di Persio è a mio avviso giustificata (su questo punto so di non poter consentire con l'amico La Penna; ma una discussione, ora, ci porterebbe troppo fuori tema), ingiusto, ancor piú ingiusto, credo, di quanto appaia a La Penna (p. 75), è il giudizio, pieno di riserve e di restrizioni su Lucano 5.
Anche le predilezioni di Marchesi sono talvolta pericolose, giacché egli riversa nell'interpretazione degli autori da lui piú amati una carica di autobiografismo che da un lato è preziosa per penetrarne la psicologia e l'arte, d'altro lato è spesso troppo immediata, troppo tendente all'identificazione. Si veda il caso di Marziale: indubbiamente Marchesi ha « ritagliato » un Marziale melanconico, gustatore di amori fugaci e conscio della loro fugacità, osservatore disincantato di una società caotica, precocemente invecchia[...]

[...]ifendere Marziale dall'accusa tradizionale di immoralità Marchesi ha tutte le ragioni; ma anche l'irrisione dell'oscenità è una forma fastidiosa di moralismo; il giudizio di Paratore su Marziale sarà troppo duro, ma ha la sua parte di verità). E d'altra parte non ci ha detto nulla neanche su quell'aspetto di vitalità sorgiva, « al di qua del bene e del male », che è un carattere di alcuni tra i piú vivi epigrammi, messo piú tardi in evidenza dal La Penna (« Maia » vut, 1955, p. 137). Anche al Seneca (il libro a cui probabilmente Marchesi teneva di piú, come dimostra la dedica alla memoria della persona da lui piú amata, sua madre) nuoce talvolta un eccesso di autobiografismo che è, insieme, un eccesso di psicologismo, di quella predilezione per le « anime tormentate » a cui già s'è accennato. L'ammirazione per Seneca passa ogni limite: da molti passi sembra chiaro che Marchesi lo consideri l'autore piú grande di tutta l'antichità, se non di tutta l'umanità. Nella
5 In un saggio giovanile su un volgarizzamento medievale della Pharsalia (SM, i[...]

[...]e talvolta un eccesso di autobiografismo che è, insieme, un eccesso di psicologismo, di quella predilezione per le « anime tormentate » a cui già s'è accennato. L'ammirazione per Seneca passa ogni limite: da molti passi sembra chiaro che Marchesi lo consideri l'autore piú grande di tutta l'antichità, se non di tutta l'umanità. Nella
5 In un saggio giovanile su un volgarizzamento medievale della Pharsalia (SM, i, p. 247, segnalato brevemente dal LA PENNA, p. 21) Marchesi sembra aver intuito, attraverso il Fortleben di Lucano nel Medioevo, i due principali motivi ispiratori — strettamente legati l'uno all'altro — di questo poeta: l'esasperato e disperato libertarismo e la negazione della provvidenza divina. Ma nella Storia questa intuizione ha scarso sviluppo; e il capitolo su Lucano è oscillante e scialbo.
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prima edizione (Messina, Principato, 1920) tale è l'identificazione del critico col suo autore, che la parte sulle opere viene ad essere costituita in misura preponderante da lunghissimi brani tradotti, quasiché non vi fosse pressoché nulla da aggiungere a ciò che Seneca disse (questa caratteristica si attenua nella seconda edizione, che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia pro[...]

[...]dizione (Messina, Principato, 1920) tale è l'identificazione del critico col suo autore, che la parte sulle opere viene ad essere costituita in misura preponderante da lunghissimi brani tradotti, quasiché non vi fosse pressoché nulla da aggiungere a ciò che Seneca disse (questa caratteristica si attenua nella seconda edizione, che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia profondamente interessato Marchesi. Oserei dire che, per alcuni aspetti (soprattutto per l'acutezza di certi giudizi politici, cfr. La Penna, p. 65 s.), il Tacito è superiore al Seneca proprio perché l'identificazione fra il critico e il suo autore è meno immediata. Forse, però, Marchesi ha visto troppo poco in Tacito la coscienza (ad un livello piú profondo del livello « patriottico ») dell'iniquità dell'imperialismo romano e del suo avviarsi alla decadenza,, nonostante l'età « aurea » di Nerva e di Traiano. Egli accenna — ed è vero — che Tacito narra senza un moto di pietà i massacri di barbari compiuti dai soldati romani; soltanto tardi, negli Annali, si farebbe strada talvolta un moto di « ammirazione e di riverenza a quei bar[...]

[...]ne come modello di poeta « umano » accostabile a Marziale, dichiara
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che « il contenuto dell'arte nei Reisebilder è piú universale che negli Châtiments », sostiene che « quanto piú il poeta parla di sé, tanto piú gli avviene di parlare degli altri ». Proprio perché l'uomo è fondamentalmente sempre uguale, l'individualità piú profonda, spogliata degli elementi contingenti, coincide con l'universalità (SM, i, p. 201; cfr. La Penna, p. 32 s.).
D'altra parte, però, Marchesi non ha prediletto la letteratura latina a caso; e non a caso, aggiungerei, ha prediletto, nella letteratura latina, l'età imperiale. Il mondo romano, per l'estensione che assunse, per il carattere multinazionale e sopranazionale che sempre piú acquisí (mentre gli antichi valori civici si dissolsero e divennero motivo più di rimpianto che di sincero orgoglio, e nessun tentativo di restaurazione valse a resuscitarli), costituí, nella visione di Marchesi, un ambiente piú adatto della polis greca o degli stati nazionali moderni all'espressione artistica [...]

[...]ni, tragici o ridicoli, riconoscere in essi e raffigurare artisticamente altrettante variazioni dell'« uomo eterno » senza sentirsi legato ad essi da alcuno stretto vincolo comunitario, rendere omaggio all'imperatore o a qualche potente dell'impero (e verso tali omaggi Marchesi è di solito incline all'indulgenza) senza esser costretto a credere « che Roma dovesse essere la città sacra della virtú, della giustizia, della forza » (SM, r, p. 191).
La Penna osserva con ragione (p. 74, cfr. p. 41) che Marchesi « aveva poca familiarità con la cultura greca ». Aggiungerei che (nonostante alcune notazioni felici sul mito di Eracle, sui poemi omerici, sull'umanità di Socrate) la poca familiarità derivava da una pregiudiziale mancanza di vera ammirazione. Specialmente quella lunga stagione della letteratura greca che era strettamente legata alla vita della polis, o comunque alla partecipazione a comunità politiche, ristrette e coese, recava, per lui, un vizio d'origine: il « cittadino » aveva, in certa misura, reso angusto l'« uomo »! Proprio nell'Epi[...]

[...]tlantico ». Presa alla lettera, nella sua prima parte, questa asserzione è, sia detto senza venir meno al rispetto per la memoria di Marchesi, una vera assurdità; e assurdità non minori vi sono nelle righe che abbiamo omesso, indicando l'omissione con punti sospensivi. Parrebbe che Marchesi non abbia saputo, sulla funzione del teatro in Atene, ciò che sa ogni studente di liceo. Lascia soprattutto sconcertati (anche per
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chi ricordi l'insistente e, in parte, poco fondata difesa della retorica che Marchesi ha già fatto nella Storia, if, pp. 3537) quell'accenno alle « sale di recitazione »: le declamazioni dei retori dell'età imperiale sarebbero state piú « vicine al popolo » che le orazioni di Demostene! Ma la vera motivazione di questa pur distorta idea della maggiore popolarità e modernità della letteratura latina è nelle ultime parole: la letteratura latina è il prodotto di una cosmopoli: la « moltitudine », la « folla » che abita questa cosmopoli non è un « popolo » organizzato in qualche modo politic[...]

[...]chesi abbia avuto presente la Psychologie des foules di Gustave Le Bon e qualche passo di Grandezza e decadenza di Roma di Guglielmo Ferrero, sebbene la trattazione di Ferrero termini con l'età augustea); è quel « volgo » che Marchesi ha tante volte disprezzato e tante volte amato come creature bisognose di « sollievo » (la parola ricorre anche nel brano che abbiamo ora citato). Si comprende bene, a questo punto, come, per ripetere le parole del La Penna (p. 50), « per il Marchesi l'umanità romana cosi intesa è un ponte fra la cultura latina e il cristianesimo » (La Penna cita un brano del saggio su Fedro, in cui questo concetto è espresso con molta chiarezza).
Dal passo della Storia che abbiamo citato, e da altri che si potrebbero citare, risulta che la cultura e la letteratura romana sono « un ponte » anche verso « tutte le nuove letterature » occidentali: medievali e moderne. Questa è una verità ovvia, anche se la nozione di « modernità » a cui Marchesi la connette in contrasto con la letteratura greca, può creare equivoci. Non credo, però, che in Marchesi ciò implichi un'ammirazione per le « nuove letterature » paragonabile a quella per la letteratura lat[...]

[...]i scritti di Marchesi, espressioni di ammirazione per poeti moderni; ma poche, e, ciò che piú conta, molto fuggevoli. Anche le letterature medievali e moderne soffrivano in varia misura, per Marchesi, di quelle angustie « civiche » di cui la cultura romana si era liberata. Di qui proviene, fra l'altro, la sua tenace battaglia, dopo la caduta del fascismo, per l'insegnamento del latino esteso a tutti i ragazzi, o quanto piú possibile esteso (cfr. La Penna, p. 84 s.). In uno degli ultimi scritti dedicati a questo problema (ora in Umanesimo e comunismo, Roma, Editori Riuniti, 19742, p. 389) ribadiva: « Lingua morta, dunque, la lingua latina: ma in questa lingua parla al mondo una delle piú grandi letterature: e certamente la piú universale » 6.
6 Accanto all'argomento, piú tipicamente marchesiano, dell'« universalità », compare in questi scritti anche la tesi classicistaumanistica, secondo la quale l'arte classica è l'unica che può essere gustata solo nella lingua originale e non in traduzioni, laddove in Shakespeare o in Tolstoj « la grandiosi[...]

[...]reazione dell'Impero avevano avuto una parte importante alcuni capi, alcuni « uomini forti » che Marchesi, disprezzatore della poesia politica e celebrativa, ammirava, anche, certo, per il suo invincibile aristocraticismo, ma soprattutto perché da un lato, comprimendo il potere dell'oligarchia senatoria, avevano esercitato un'azione, in qualche modo, « popolare » (a proposito di Cesare questo motivo, di chiara origine mommseniana, è indicato dal La Penna, p. 34; e in generale direi che Marchesi, giudice storicopolitico non sempre ugualmente acuto, raggiunge il massimo di appassionata lucidità nel disprezzo per l'oligarchia senatoria), dall'altro avevano fatto acquisire allo Stato romano quell'estensione e quel carattere cosmopolitico che avevano conferito alla letteratura latina la sua « universalità ».
Da questo punto di vista l'imperialismo diventava, paradossalmente ma non illogicamente, superiore al patriottismo, perché era una via alla dissoluzione delle angustie nazionali. Una frase come quella che leggiamo nell'Epilogo della Storia (i[...]

[...]ucendo Demostene o Livio. Per di piú, con quest'argomentazione Marchesi si vedeva costretto a porre sullo stesso piano d'intraducibilità i greci e i latini (e infatti citava anche i lirici greci): dunque insegnamento anche del greco nella scuola dell'obbligo? E infine è alquanto sforzato il ricorso a questa tesi da parte di un critico che, come si è detto, tranne eccezioni rarissime, citò sempre brani latini tradotti!
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 649
uomo di Stato fu il fondatore dell'impero romano quale organismo politico universale »7. In confronto a Cesare, Augusto, osserva il La Penna (p. 76),
« non riscuote un'ammirazione neppure lontanamente paragonabile ». Ciò mi sembra vero soltanto in parte. Certo Marchesi non ha attribuito ad Augusto la genialità di Cesare, né lo poteva; ma non ha nemmeno accentuato, come altri studiosi, il contrasto fra la mediocrità dell'uno e la grandezza dell'altro. Anche ad Augusto è tributata una viva lode per quel punto che piú importa a Marchesi: « Con uguale risolutezza procede la politica unitaria provinciale che tende ad associare l'Italia alle provincie
e a costituire il grande impero romano al posto di quello Stato cittadino che vedeva[...]

[...]inciale che tende ad associare l'Italia alle provincie
e a costituire il grande impero romano al posto di quello Stato cittadino che vedeva nelle provincie un semplice campo di sfruttamento » (Storia, i', p. 356). E in un discorso su Augusto tenuto nel 1938 (l'anno del bimillenario augusteo; edito nella collana di « Opuscoli Accademici » dell'Università di Padova, ripubblicato poi nel Cane di terracotta) il giudizio è ancor piú elogiativo. Dove La Penna ha senz'altro ragione, è nell'osservare che
« nella poesia augustea gli aspetti romani, "imperiali", non sono affatto sopravvalutati » (p. 76 s.); non lo sono neanche nel discorso del 1938. Ma, appunto, se alla poesia non competeva di trasformarsi in celebrazione retoricopatriottica, l'u o m o politico Augusto compiva, senza bisogno di Odi romane e di Carmi secolari, il suo compito di dissolutore dello « Stato cittadino », e in quanto tale preparava il terreno alla poesia puramente umana.
La difesa che Marchesi fa di Tiberio, la sua sia pur cauta rivalutazione di Domiziano (nel profilo di [...]

[...]o Augusto compiva, senza bisogno di Odi romane e di Carmi secolari, il suo compito di dissolutore dello « Stato cittadino », e in quanto tale preparava il terreno alla poesia puramente umana.
La difesa che Marchesi fa di Tiberio, la sua sia pur cauta rivalutazione di Domiziano (nel profilo di Marziale) si collocano su un altro piano: non come imperatori « forti » essi sono apprezzati da Marchesi, ma come uomini tristi, soli, incompresi (bene il La Penna, p. 68). Ma nell'introduzione al cap. vi della Storia (II', p. 323 s.: « Da Adriano a Diocleziano ») ritorna ancora una volta il nesso tra impero come assolutismo e impero come cosmopoli: « Il potere imperiale, ormai prossimo anche nella forma all'assolutismo monarchico, si faceva sempre piú personalmente sollecito della prosperità e del benessere di tutti i paesi soggetti, e i vinti dimenticavano la loro indipendenza di fronte ai benefici della pace e degli onori e senti
I1 giudizio su Cesare, tuttavia (caso raro in Marchesi, che fu di solito molto costante nei suoi amori e odi per artisti [...]

[...]inti dimenticavano la loro indipendenza di fronte ai benefici della pace e degli onori e senti
I1 giudizio su Cesare, tuttavia (caso raro in Marchesi, che fu di solito molto costante nei suoi amori e odi per artisti e personaggi politici), oscillò fortemente da uno scritto e da un'occasione all'altra. Nella Storia, dalla prima all'ultima edizione, domina l'esaltazione senza riserve. Nel discorso su Livio del 1942 (= Voci di antichi, p. 117; dr. LA PENNA, p. 34) l'esaltazione è seguita da una nota di profonda incertezza se la grandezza di Cesare sia stata benefica o distruttiva. In un articolo politico del 1952 (Umanesimo e comunismo, p. 81), di contro alla tirannia di Mussolini e di Franco tornava a esaltare la tirannia di Cesare, certo con ragione quanto all'abissale distanza, ma senza esprimere su Cesare nemmeno l'ombra di una riserva, anzi attribuendogli il merito di esser riuscito « a realizzare esigenze democratiche spietatamente combattute e a dilatare civilmente i confini di un impero dentro un tessuto barbarico ». Ma l'anno dopo, com[...]

[...] sia formata (e poi, eventualmente, sviluppata e mutata) la sua visione della vita. Marchesi visse la maggior parte della propria vita in un'Italia dominata dal neoidealismo e in un'Europa nella quale, se l'influsso di Croce e di Gentile non si estese molto, prevalsero correnti, sia pur diverse, di reazione antipositivistica, di spiritualismo, anche di aperto irrazionalismo. Qual è, in questo ambiente, la sua collocazione? Il problema (sul quale La Penna ed io abbiamo avuto scambi d'idee quando il suo saggio era già tutto scritto, ma prima che fosse pubblicato, come egli stesso accenna, con amichevoli parole, nell'Avvertenza iniziale, p. 2) è affrontato brevemente a p. 56 s., prescindendo da altri piú fugaci accenni nel corso del saggio. Sembra dapprima che Marchesi sia visto da La Penna, prevalentemente, come un idealista, non privo di influssi crociani e gentiliani. « Con alcuni residui positivistici conviveva una larga, sostanziale, importante influenza del neoidealismo contemporaneo. » Il materialismo a cui Marchesi diceva di aderire non era insincero né frutto di un semplice equivoco, ma, specialmente negli anni della maturità,
piuttosto velleitario e superficiale [ ...1. Era idealistica la sua sfiducia nella scienza, idealistica la sua rivalutazione quasi misticheggiante dell'individuo come fantasia, creazione artistica, e come coscienza religiosa. Amava citare da Agos[...]

[...]re generica, è nell'idealismo contemporaneo: siamo sulla via che porta al concetto crociano della storia che è sempre storia contemporanea, o addirittura all'atto puro di Gentile.
Subito dopo, la collocazione muta alquanto: Marchesi, piú che all'idealismo neohegeliano, è avvicinato, sia pure indirettamente, « a forme di irrazionalismo di ispirazione nietzschiana e poi bergsoniana », e distaccato, anche se non del tutto, dal crocianesimo. Infine La Penna rammenta che
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 651
già nella giovinezza catanese Marchesi « aveva respirato l'aria del tardo positivismo, che diventava sempre piú agnostico [...1; probabilmente alcuni fili uniscono lo scetticismo e l'irrazionalismo di Marchesi col tardo positivismo agnostico e vagamente religioso ».
Non bisogna imputare a oscillazioni o incoerenze del giudizio di La Penna le oscillazioni e le incoerenze che vi furono effettivamente in Marchesi. Io credo, tuttavia, che l'interpretazione di La Penna sia troppo sforzata in senso idealistico, e che Marchesi abbia non soltanto assorbito da giovane, ma sostanzialmente conservato fino all'ultimo un'impostazione ideologica e culturale (e, piú largamente, « umana », psicologica) tardopositivistica. Credo, anche, che di questo tardo positivismo a cui Marchesi appartenne non si debba mettere in risalto soltanto ciò che è, in qualche modo, preidealistico (o meglio prespiritualistico), ma anche ciò rispetto a cui il successivo idealismo e spiritualismo rappresentò una frattura e una svolta. E, pur riconoscendo ovviamente che il tardo positivismo eb[...]

[...]evoli filoni del positivismo fin dall'inizio.
Sarò costretto a ricordare cose che non costituiscono alcuna novità (fra l'altro, c'è attualmente un rifiorire di studi sul positivismo, e il poco che rammenterò apparirà, ad un tempo, scontato e troppo generico); ma il mio scopo è soltanto di dare alcuni punti di riferimento per la collocazione della personalità di Marchesi, e di mostrare come quelle contraddizioni che giustamente, come si è visto, La Penna ha messo in risalto nella figura del suo autore non siano tutte e soltanto contraddizioni « personali », ma si ritrovino appunto nella cultura positivistica.
Certo, se si pensa al positivismo come scientismo o come sia pur parziale ripresa di motivi illuministici e laici dopo l'età romantica, Marchesi appare del tutto lontano. Ma istanze religiose, di tipo estremamente vario, sono inerenti a gran parte del positivismo. A noi qui non interessano tanto le varie « religioni della scienza » o « dell'umanità » (da Comte a Haeckel), quanto piuttosto quelle concezioni dualistiche in cui da un lato [...]

[...]quanto tale, come si è visto, compare già nel primo positivismo, assume una carica di « sgomento cosmico » e di ansia per il destino effimero dell'uomo. Due poeti e studiosi pur molto diversi l'uno dall'altro, Pascoli e Graf, esprimono spesso questo bisogno religioso all'interno di una cultura che è ancora nettamente positivistica; lo stesso si può dire di un autore a cui il Marchesi fu molto vicino nei suoi anni giovanili, Mario Rapisardi (cfr. La Penna, p. 7 s.; si pensi specialmente al Giobbe di Rapisardi; e si tengano presenti le affinità che risultano dal carteggio GrafRapisardi pubblicato da Carmelina Naselli in « Archivio storico per la Sicilia orientale », LVIII, 1962, fasc. 13, LIx, 1963, fasc. 13). Nessuno di essi pensò mai alla possibilità di porre l'uomo al centro dell'universo, di « dissolvere » la materia facendone l'oggetto del pensiero, di negare l'assolutezza delle leggi naturali. L'uomo rimaneva l'abitante periferico e casuale di un mondo tanto piú vasto di lui, retto da cieche e inesorabili leggi meccaniche: la scienza in c[...]

[...] ansie religiose che tuttavia, dinanzi all'« antiprovvidenzialismo » cosí evidente nella realtà tutta quanta, non giunsero mai a placarsi. Perfino il Pascoli, che pareva il piú predestinato a finire nel cristianesimo, non vi fini, e nella prefazione a Odi e inni scrisse, accanto a banalità antisocialiste, parole dignitose di replica a chi lo sollecitava a una conversione. Ma in verità, se si confrontano gli scritti dei
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convertiti (per esempio il famoso Per una fede di Arturo Graf) con quelli dei non convertiti, si vede che non c'è quasi nessuna differenza: anche i convertiti continuarono a sentire piú il mistero, con le sue ansie, che la fede o la certezza. E ciò conferma quanto abbiamo già detto, sulle orme del La Penna, riguardo alle forzature dell'interpretazione cattolica della personalità di Marchesi.
In tale atmosfera tardoottocentesca una parte importante la ebbe un modo particolare di intendere Lucrezio, come seguace di un materialismo che avrebbe dovuto liberare l'anima dalle ansie e dai timori, esaltatore del suo maestro Epicuro proprio per questa azione liberatrice, eppure soggiacente esso stesso a una visione desolata della vita e ad un'angoscia che costituirebbe il piú verace motivo ispiratore della sua poesia. Questa interpretazione — in parte giusta finché individuava il senso tragico della We[...]

[...]spartiacque, Marchesi rimase « al di qua ». La filosofia antipositivistica del Novecento era trionfalistica: negava la scienza ottocentesca, ma negava anche il « mistero », e disprezzava il positivismo come un'epoca di decadenza filosofica. Marchesi, se non si sentiva appagato dalla scienza, ancor piú era irritato dal trionfalismo della filosofia: dall'aspra invettiva contenuta in un saggio del 1910 (SM, ir, p. 669 s., messa in rilievo anche dal La Penna, p. 36) alla drastica asserzione, nel già citato discorso del 1956, che « le costruzioni filosofiche del pensiero puro sono tutte fallite » (Umanesimo e comunismo, p. 32), il suo atteggiamento a questo riguardo non ha mutamenti, in un'Italia in cui la maggior parte dei critici letterari e degli storici filosofeggiava, anche se spesso la cultura filosofica di costoro si riduceva a un po' di Croce. Quando, nella già citata commemorazione del Bertacchi (Divagazioni, p. 132) Marchesi contrapponeva « l'ottocento pieno di grandezza » al « novecento pieno di boria », intendeva certo dichiararsi fede[...]

[...]fica di costoro si riduceva a un po' di Croce. Quando, nella già citata commemorazione del Bertacchi (Divagazioni, p. 132) Marchesi contrapponeva « l'ottocento pieno di grandezza » al « novecento pieno di boria », intendeva certo dichiararsi fedele all'ambiente della propria giovinezza; e parlando di « boria » si riferiva, con tutta probabilità, in primo luogo alla filosofia.
L'amore di Marchesi per i « tre presenti » di Agostino (ricordato dal La Penna in un passo che abbiamo citato poco dopo l'inizio di questo paragrafo) non serve, io credo, a gettare un ponte verso il concetto crociano della storia sempre contemporanea, né verso l'Atto puro di Gentile. Croce e, con molto maggiore nettezza e coerenza, Gentile sapevano che una filosofia che pone come unica realtà il Soggetto assoluto deve distruggere anche la nozione empirica di tempo: non esiste un prima e un dopo cronologico, ma soltanto logico, una « storia ideale eterna » che è il ritmo dialettico dell'eterno Presente. A tutta questa costruzione Marchesi rimase estraneo (e per la verità[...]

[...] con molto maggiore nettezza e coerenza, Gentile sapevano che una filosofia che pone come unica realtà il Soggetto assoluto deve distruggere anche la nozione empirica di tempo: non esiste un prima e un dopo cronologico, ma soltanto logico, una « storia ideale eterna » che è il ritmo dialettico dell'eterno Presente. A tutta questa costruzione Marchesi rimase estraneo (e per la verità ciò non fu un danno: a volte la debo
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lezza filosofica, che in sé è certo un limite, salva dai cavilli e dalle mistificazioni della filosofia). Il « presente del passato » e il « presente del futuro » sono per Marchesi l'eterno ripetersi della vicenda umana, costituita di infelicità e, per la maggior parte degli uomini, di meschinità ed egoismo, di sopraffazioni compiute
e di sopraffazioni sofferte. Nel Tacito (2a ed., p. 244), dopo una delle tante allusioni a quel passo di Agostino, aggiungeva a commento: « In verità la storia è il continuo e sempre rinnovato spettacolo del bene che non cessa di lottare e di soccombere e d[...]

[...]or parte degli uomini, di meschinità ed egoismo, di sopraffazioni compiute
e di sopraffazioni sofferte. Nel Tacito (2a ed., p. 244), dopo una delle tante allusioni a quel passo di Agostino, aggiungeva a commento: « In verità la storia è il continuo e sempre rinnovato spettacolo del bene che non cessa di lottare e di soccombere e del male che non cessa di lottare e di prevalere » 9.
Nemmeno accosterei Marchesi — come, sia pure cautamente, fa il La Penna, p. 56, cfr. 36 — a un irrazionalismo vitalistico di tipo nietzschiano
o bergsoniano. Le ragioni le ho in parte già dette; aggiungerei che una cosa è la valutazione del « sapore immediato della vita » espresso dall'arte, quale Marchesi ritrovava nei suoi amati Petronio e Marziale, un'altra è il vitalismo affermatosi tra fine Ottocento e prime) Novecento. « Volontà di potenza », « slancio vitale » sono concetti e sentimenti estranei a chi sentiva tutta la propria vita dominata da « ansietà e sazietà », a chi diceva: « le cose, appena le tocco, mi diventano vecchie » (cfr. Franceschini, op. ci[...]

[...]come s'è detto, un modo di rappresentare il dramma umano e di consolare (parzialmente) dall'infelicità. Chiamerei estetizzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto importante.
Anche la dicotomia, ben osservata dal La Penna (p. 55 s.), tra una filologia strettamente e un po' aridamente tecnica (quante pure e semplici collazioni di codici, ora raccolte in SM, nel primo quindicennio di attività!)
e una critica letteraria aliena da ogni filologia va messa in rapporto, a mio avviso, con una pratica di lavoro frequente in molti filologi classici o, ancor piú, italianisti o romanisti della « scuola storica », che alternavano a un'erudizione troppo arida una saggistica fin troppo divulgativa, con tendenza allo psicologismo e al « bello scrivere », spesso anche alla retorica. Naturalmente si sottraggono a tale caratter[...]

[...]nisti e i medievalisti di fine Ottocento, non si dimentichi che nella produzione giovanile di Marchesi la filologia medievale e umanistica prevalgono, come quantità e anche come valore, sulla filologia classica, seguendo l'esempio di Remigio Sabbadini, anche lui, malgrado le cure date al testo di Virgilio, migliore studioso dell'umanesimo che della letteratura latina antica. Di questa produzione giovanile di Marchesi tratta in modo eccellente il La Penna nel cap. ir del suo saggio, e io non ho nulla da aggiungere; qualcosa, piú oltre, dirò del Marchesi filologo classico.
Con ciò non intendo certo sostenere che Marchesi abbia trascorso la maggior parte della sua vita intellettuale chiuso dentro una corazza tardopositivistica, insensibile ad ogni influsso del neoidealismo e dell'irrazionalismo novecentesco. La condanna del filologismo (quale appare specialmente nella prolusione del 1923, per poi attenuarsi), la preferenza per la critica letteraria monografica o per la storia come « collezione di monografie », erano aspetti della sua personalit[...]

[...]maggior parte della sua vita intellettuale chiuso dentro una corazza tardopositivistica, insensibile ad ogni influsso del neoidealismo e dell'irrazionalismo novecentesco. La condanna del filologismo (quale appare specialmente nella prolusione del 1923, per poi attenuarsi), la preferenza per la critica letteraria monografica o per la storia come « collezione di monografie », erano aspetti della sua personalità che — uso una felice espressione del La Penna, p. 78, a proposito della Storia della letteratura latina — « convergevano con una certa impostazione idealistica ». E infatti, come ricorda ancora il La Penna, la Storia fu lodata da Croce (cfr. Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, ir, Bari 19473, p. 197) ed ebbe ottima accoglienza nella cultura italiana degli anni Trenta. Prima ancora, il Seneca era stato accolto da Gentile nella collana di « Studi filosofici » da lui diretta presso Principato, ed era stato recensito assai favorevolmente da Adolfo Omodeo (Tradizioni morali e disciplina storica, Bari, Laterza, 1929, pp. 107117). A sua volta, Marchesi, pur non desistendo mai dalle sue puntate contro la filosofia « incapace di consolare », non s'impegnò mai in polemiche esplicite contro l[...]

[...]emiche esplicite contro l'idealismo crociano e gentiliano e contro l'estetica crociana 10; non è improbabile che,
Io Una sua replica a Croce di argomento politico, assai rispettosa e tendente a conciliare piú che ad accentuare il dissenso, è in Umanesimo e comunismo, p. 50 ss. (da « La città libera », 24 maggio 1945). Con Gentile aveva avuto una discussione a proposito dell'Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale (Messina 1904): cfr. LA PENNA, p. 18 e n. 10. Sui posteriori rapporti con Gentile, fino alla sdegnata lettera aperta del 1944 (il cui testo, peraltro, fu diffuso con una frase finale non autentica, che poté sembrare un incitamento all'uccisione di Gentile) cfr. FRANCESCHINI, Marchesi, p. 110 ss. Ma discussioni filosofiche, pare sicuro, non ve ne furono. Sull'equivoco per cui molti considerarono ortodossamente idealistica e addirittura crociana la Storia della letteratura latina vedi P. TREvES, Ritratto critico di C. Marchesi, « Nuova rivista storica » LII, 1968, p. 116 ss. (articolo molto dotto e molto ricco di notazioni [...]

[...] p. 110 ss. Ma discussioni filosofiche, pare sicuro, non ve ne furono. Sull'equivoco per cui molti considerarono ortodossamente idealistica e addirittura crociana la Storia della letteratura latina vedi P. TREvES, Ritratto critico di C. Marchesi, « Nuova rivista storica » LII, 1968, p. 116 ss. (articolo molto dotto e molto ricco di notazioni acute. anche per chi non condivida il punto di vista idealistico del Treves).
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pur convintissimo di essere dalla parte del vero, si sentisse troppo poco ferrato filosoficamente per discussioni di questo genere. Ma i suoi amici piú cari, anche quando la generazione propriamente positivistica (alla quale aveva appartenuto il suo maestro Sabbadini) volse al tramonto, egli li ebbe fra uomini accomunati a lui dal « bisogno di Dio », o tra cattolici di spirito aperto, o anche tra idealisti, ma idealisti eterodossi. Fra i primi, oltre il Bertacchi che già abbiamo ricordato, va particolarmente segnalato Eugenio Donadoni, un critico che presenta con Marchesi forti affinità [...]

[...]sull'arte », benché con uno stile assai diverso da quello di Marchesi (minore tensione retorica, maggiore pericolo di leziosaggine). E in quanto criticoartista, o aspirante tale, apprezzò anche, oltre che per le sue doti di affettuosa cordialità, Francesco Flora (cfr. Franceschini, op. cit., p. 51). Su un piano diverso si colloca la sua amicizia con Togliatti: sincera indubbiamente da parte di Marchesi, non altrettanto, credo (qui dissentirei da La Penna, p. 87), da parte di Togliatti. Difficilmente un marxistacrociano come Togliatti può avere scritto con sincerità che Marchesi fu « il piú profondo degli umanisti e il piú audace dei pensatori moderni » (cfr. La Penna, p. 103). Bisogna, credo, ripensare al grande bisogno di intellettuali di prestigio che il Pci ha avuto sempre, dal '45 ad oggi, data la sua linea politica « nazionale », onnicomprensiva, anticlassista. Se gli intellettuali di prestigio erano piú « umanisti » che marxisti, tanto di guadagnato: non c'era il rischio che entrassero in conflitto col partito esigendo quella coerenza ideologicopolitica che esso, in conformità alla sua linea, non doveva possedere; e contribuivano a gettare un ponte verso l'intelligencija borghese, a dimostrarle che, pur di non discutere le scelte politiche, si potev[...]

[...]ifensivo non disprezzabile); la sua stessa passionale difesa di Stalin all'viiz Congresso del Pci nel 1956, politicamente aberrante, non mancò di una certa dignità di fronte ai destalinizzatori italiani dell'ultima ora (e destalinizzatori solo in superficie), i quali, a cominciare da Togliatti, avevano pronunciato all'indirizzo di Stalin vivo e potente, o appena morto, le piú vergognose piaggerie. Ciò forse andava ricordato a p. 87 del libro del La Penna, pur tenendo fermo che non è attraverso le nostalgie staliniste (o stalinisteumaniste) che si può ricreare una prospettiva socialista. Ma certo il suo prestigio di grande umanista dovette, con ragione, apparire prezioso a Togliatti: di qui quelle parole troppo ditirambiche (in un uomo intelligente e, al tempo stesso, freddo e privo di senso dell'amicizia) per essere sincere.
7. Marchesi socialista nel primo Novecento. — Avendo accennato al Marchesi politico, siamo ancora una volta (l'ultima) ricondotti al clima tardoottocentesco della sua formazione. In quegli intellettuali a cui lo abbiamo [...]

[...]n quegli intellettuali a cui lo abbiamo accostato (Rapisardi, Graf, Pascoli) il « positivismo bisognoso di religione » si collega con una morale della fraternità, che sfocia in un socialismo umanitario, oscillante tra la rivolta anarchica e il solidarismo cristianomassonico, privo di ogni rigorosa base marxista. Che di questo tipo sia stato il socialismo iniziale di Marchesi, si comprende bene dalla lucida sintesi che nel cap. i del suo libro il La Penna ricava dai documenti a nostra disposizione (io ho soltanto dei dubbi su un presunto legame tra il socialismo di Marchesi e l'esaltazione, che in lui riaffiorò poi sempre, del libero amore e il suo senso di fastidio per l'amore coniugale: il libero amore come lo concepisce Marchesi è troppo collegato al disprezzo per la donna, vagheggiata solo come oggetto di fugace piacere, come etèra: una Anna Kuliscioff, una Anna Maria Mozzoni non sarebbero piaciute affatto a Marchesi) .
Con l'umanitarismo e con un pessimismo di fondo coesisteva, in molti di codesti intellettuali, una convinzione nella « f[...]

[...]ma meno schematica, agli stessi Marx ed Engels; e il volontarismo dei marxisti occidentali novecenteschi produsse poi, e tuttora produce, aberrazioni ben peggiori). Ma in chi si sentiva legato tuttora, per molti aspetti di cultura e di « umanità », alla civiltà borghese, la necessità del socialismo poteva non coincidere con la sua desiderabilità, con la speranza in un mondo anche culturalmente e umanamente piú libero e
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(compatibilmente con certi aspetti duraturi della « condizione umana ») piú felice: poteva essere semplicemente qualcosa da accettare in quanto ineluttabile, come un fenomeno della natura, come l'evoluzione biologica a cui molti socialisti di quell'epoca accostavano lo sviluppo storicosociale. Negli anni Novanta, Arturo Graf, aderendo al socialismo, scriveva a Turati: « Io accetto tutta, ne' suoi fondamenti, la dottrina socialista; non per la promessa che arreca di una maggiore felicità avvenire (io credo a una infelicità crescente col crescere della coscienza); ma perché riconosco in es[...]

[...]e dà incentivo alla lotta; e quel « piaccia o no » non autorizza certo a pensare che al giovane Marchesi degli anni Novanta (e tanto meno al Marchesi vecchio che rievocava quel lontano se stesso) la prospettiva del socialismo « non piacesse ». Ma in un articolo del 1908 su Orazio (SM, ii, pp. 545561) la concezione fatalistica conduce Marchesi a enunciazioni che vanno assai al di là della lettera di Graf a Turati. Questo articolo non è sfuggito a La Penna, che giustamente parla di « riflessioni sorprendenti sul socialismo » (p. 43); ma se le incoerenze tra aristocraticismo individualista (col correlativo disprezzo del volgo) e aspirazione al socialismo accompagnarono Marchesi per tutta la vita — con qualche attenuazione, ma attenuazione soltanto, negli ultimi anni —, qui mi sembra che si assista a un vero momento di acuta crisi. Marchesi proprio in quell'anno era consigliere comunale socialista (eletto in una lista democratica) a Pisa; e i suoi pochi interventi, per lo piú
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dedicati a problemi amministrativi, ma comun[...]

[...]isce se si ritiene che il proletariato sia una marmaglia inguaribilmente inferiore), ma si sofferma sul terribile prezzo che ciò costerà: perdita dell'« amore », vuoto « al posto di Dio che irraggiava di beatitudine le anime delle sue creature e dell'imperadore che movea oste per la sua gente » (curioso, sul finire di questo articolo oraziano, questo rimpianto « medievale »). Che avremo al posto di tutto ciò? « I nuovi
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canti del lavoro? Oh forse, no. » L'unica speranza è che « noi » (noi intellettuali umanisti) riusciamo a far rivivere, « con i canti della Georgica immortale, il sorriso e lo scherno della sapienza oraziana » (p. 561). Si noti il dilemma: o una poesia populistica e retorica, o la reviviscenza della grande poesia antica. Una cultura, una poesia nuova che si innalzi un po' al di sopra dell'Inno dei lavoratori è esclusa a priori da Marchesi.
Il 1908 cade in un periodo in cui gran parte dell'intelligencija italiana, che si era accostata al socialismo durante la reazione di Crispi e di Pell[...]

[...]monio del sapere ». Era un'asserzione tipicamente marchesiana, che il Marchesi si vedeva ritorcere contro! Ma certo sarebbe interessante (benché non
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facile) studiare il Marchesi socialista dagli inizi del nostro secolo fino alla fondazione del Partito comunista; è questo il periodo del Marchesi politico su cui meno sappiamo.
8. Il critico testuale. — Un ultimo punto sul quale, sempre seguendo e postillando il libro di La Penna, vorremmo dire qualcosa è l'attività di Marchesi come filologo classico, e più precisamente come critico testuale. Il La Penna (cap. III) valuta, in complesso, severamente le edizioni critiche o semicritiche (chiamo cosi i commenti scolastici muniti di piú o meno sporadici contributi criticotestuali: un genere ibrido, ma nel quale dettero alcune buone prove il Terzaghi, il Galante ed altri) dell'Orator di Cicerone, del Tieste di Seneca, del De magia di Apuleio, dell'Ars amatoria di Ovidio; .considera con maggiore benevolenza alcune ricerche su codici di autori antichi (molte di piú, e piú fruttuose, il Marchesi ne compi su codici di autori medievali e umanistici) e in particolare mette in risalto il valore degli stud[...]

[...]considera con maggiore benevolenza alcune ricerche su codici di autori antichi (molte di piú, e piú fruttuose, il Marchesi ne compi su codici di autori medievali e umanistici) e in particolare mette in risalto il valore degli studi sugli scolii a Persio (SM, II, pp. 907983); sottolinea che un progresso criticotestuale assai notevole fu compiuto dal Marchesi con l'edizione di Arnobio (Torino 1934, 19532). Tuttavia anche riguardo a quest'ultima il La Penna ammonisce che « va lodata con misura », e vi ravvisa il difetto di tutta la critica testuale marchesiana, l'indirizzo troppo conservativo, di cui fornisce (a p. 30 e in un'appendice a pp. 101103) parecchi esempi, discutendo intelligentemente vari passi e proponendo anche qualche suo contributo persuasivo.
Sia la valutazione generale di Marchesi filologo, sia le discussioni lapenniane di singoli passi sono in massima parte giuste. E rimane ovvio che per la sua indole stessa di criticoartista, per la sua polemica contro il « filologismo » che assieme al filologismo tendeva a svalutare la filol[...]

[...]lutare la filologia, Marchesi non poteva riuscire un filologo di prima grandezza: il centro della sua personalità e dei suoi interessi era altrove.
Su due punti, tuttavia, mi sembra necessaria una precisazione. Per quel che riguarda il primo periodo dell'attività criticotestuale di Marchesi (cioè fino all'Arnobio escluso), mentre le edizioni dell'Orator, del De magia e dell'Ars amatoria vanno abbandonate senza rimpianti al giudizio negativo del La Penna — si potrà sempre discutere su qualche singolo passo, ma il quadro d'insieme non muta —, quella del Tieste di Seneca è un'edizione che presenta alcune imprecisioni di metodo nella trattazione sui codici, alcune scelte di varianti erronee o discutibili, purtroppo anche un terribile manes in fine di trimetro giambico (al v. 93: fra i « guasti » segnalati dal La Penna a p. 27 manca questo, che è certamente il piú spiacevole, tanto più in quanto rappresenta l'unica congettura che il Marchesi, critico conservatore, introdusse nel testo: magari fosse stato, questa volta, conservatore, e avesse lasciato stare manus, che va benissimo!); e tuttavia, in confronto alle edizioni del Leo e di PeiperRichter che allora erano le sole disponibili, segna un progresso non indifferente.
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È noto che il Leo, dalla constatazione ovvia (e già fatta dal Gronovius) della superiorità del codice Etrusco (E), era giunto ad una assurda superstizione, fino a considerare tutte le varianti della numerosissima famiglia A come frutto di con gettura, e a far tutto il possibile per non accoglierle nel testo nemmeno come congetture, e a introdurre molte congetture sue e del Wilamowitz, quasi tutte infelici (il Leo piú tardi eccelse anche nella critica testuale, come editore di Plauto; ma buon congetturatore non fu mai; e il Wilamowitz non era buon critico di testi latini, e meno che mai d[...]

[...]ter a favore di A (e qui, già prima del Carlsson, egli vedeva giusto), ma senza smarrire la consapevolezza della superiorità di E. Volendo, comunque, dare un contributo alla conoscenza di alcuni codici A piú o meno contaminati, egli dette una sommaria notizia dei manoscritti fiorentini, soffermandosi con particolare predilezione sul Riccardiano 526 (sec. xiii: cfr. pp. 29, 3337). A proposito delle lodi che il Marchesi tributa a questo codice, il La Penna fa un'osservazione che, del tutto giusta in moltissimi casi, non mi sembra giusta nel caso specifico: « Una curiosa trappola riservata ai conservatori in critica del testo è nel sostenere lezioni manoscritte solo perché manoscritte, anche quando sono frutto di emendamenti di copisti dimostrabili in base alla storia del testo ». Ora, il Marchesi (p. 29) non loda il Riccardiano in quanto trasmettitore di lezioni risalenti all'archetipo o comunque a un ramo di tradizione genuina: loda il co pi s t a del Riccardiano in quanto assennato editore medievale, che, attenendosi fondamentalmente ad A ma [...]

[...]trodusse di suo emendamenti congetturali e ritocchi »), dette un buon testo eclettico, precorrendo talvolta congetture di filologi successivi. Lezioni come involvet al v. 624 (giusta, trovata poi dal Giardina in due codici piú tardi), potui al v. 1040 (non indispensabile di fronte a potuit della tradizione, ma tutt'altro che spregevole, e congetturata piú tardi dal Gronovius), preces movebunt al v. 302 (congetturata piú tardi dall'Avantius, cfr. La Penna, p. 27 e n. 18) sono chiaramente designate dal Marchesi come « varianti congetturali » (p. 29), ottenute talvolta mediante « accordo » a « conciliazione » di E con A. Il Marchesi asserisce (ibid.) che il Riccardiano
« nulla ci dà di nuovo [dal « nuovo » egli esclude le congetture ottenute mediante
« combinazione » delle lezioni di A e di E, come il già citato involvet] fuor che una sola lezione, in un passo tormentatissimo » (f erunt al v. 229, contro gerunt degli altri codd.). Si può supporre che in questo solo passo (e sarebbe davvero un passo scelto male, poiché ferunt, a cui il Marchesi[...]

[...]one prescelta dal Marchesi è oggi accolta (cfr. anche i « fartasse recte » del Giardina a 180 e 322). In alcuni casi si tratta di scelte a favore di A, nelle quali il Marchesi precorse il Carlsson o altri studiosi, in uno di scelta a favore di E (v. 26: qui il Leo e il Richter avevano preferito ne di A, e ciò dimostra che Marchesi non aveva pregiudizi uniláterali contro l'Etrusco), in molti altri di conservazione della lezione di tutti i mss. Il La Penna, mentre enumera (p. 27) alcuni passi in cui il Marchesi ha sicuramente o probabilmente torto, non fa cenno (tranne che per il v. 302) dei casi, tutto sommato piú numerosi, in cui ha ragione contro Lea e Richter (talvolta la lezione giusta era stata già prescelta da vecchi filologi; ma è pur sempre un merito del Marchesi l'averla rivalutata contro le edizioni allora piú recenti e accreditate). Al v. 715 tantum scelus di A (preferito dal Marchesi contro saevum scelus di E e degli editori) non è sicuro, tuttavia ha, nella sua indeterminatezza, maggior forza enfatica, e l'ipotesi del Marchesi sul[...]

[...]ta era stata già prescelta da vecchi filologi; ma è pur sempre un merito del Marchesi l'averla rivalutata contro le edizioni allora piú recenti e accreditate). Al v. 715 tantum scelus di A (preferito dal Marchesi contro saevum scelus di E e degli editori) non è sicuro, tuttavia ha, nella sua indeterminatezza, maggior forza enfatica, e l'ipotesi del Marchesi sulla genesi dell'altra lezione non è trascurabile. Al v. 563
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concordo col La Penna (e con tutti gli editori tranne Marchesi) nel ritenere che l'ordine delle parole di E sia piú consono allo stile di Seneca; eppure il confronto addotto da Marchesi con l'ordine delle parole nel modello virgiliano non è privo di finezza, e la lezione che egli preferisce non è tramandata dal solo Riccardiano, ma dall'intera classe A.
Questa mia difesa dell'edizione del Tieste va considerata, intendiamoci, come una difesa ben delimitata: i grossi difetti a cui già abbiamo accennato restano, e l'edizione rimane il lavoro di uno studioso non privo di qualità anche in critica testuale, ma immaturo[...]

[...]liano non è privo di finezza, e la lezione che egli preferisce non è tramandata dal solo Riccardiano, ma dall'intera classe A.
Questa mia difesa dell'edizione del Tieste va considerata, intendiamoci, come una difesa ben delimitata: i grossi difetti a cui già abbiamo accennato restano, e l'edizione rimane il lavoro di uno studioso non privo di qualità anche in critica testuale, ma immaturo.
Diverso è il caso dell'edizione di Arnobio. Su essa il La Penna si sofferma ampiamente, mostrandosi ottimo conoscitore del testo arnobiano e aggiungendo alle osservazioni sull'edizione di Marchesi propri contributi originali (pp. 29 s., 101103; altri contributi originali il La Penna pubblicherà prossimamente). Egli nota con ragione che,nell'Arnobio « la tendenza conservatrice », che aveva pesato negativamente sulle vecchie edizioni curate da Marchesi, « non è affatto generale e molto raramente è acritica »; aggiunge che « l'editore avanza anche congetture nuove, in parte felici » (p. 29).
Quali le spinte che possono aver contribuito a questa cosí notevole e quasi sorprendente maturazione? (Sorprendente anche se si pensa che quando compí la prima edizione di Arnobio, 1934, Marchesi aveva già cinquantasei anni, un'età in cui l'acume filologico, se non si è già rivelato, d[...]

[...]endente maturazione? (Sorprendente anche se si pensa che quando compí la prima edizione di Arnobio, 1934, Marchesi aveva già cinquantasei anni, un'età in cui l'acume filologico, se non si è già rivelato, difficilmente fa la sua comparsa; e nella seconda edizione del 1953, a settantacinque anni e nel pieno di un'attività intensa di tutt'altro genere, fu ancora capace di arrecare al suo lavoro numerosi miglioramenti). Una delle ragioni, suppone il La Penna, può essere ravvisata nell'influsso di un critico testuale anticonservatore, amico di Marchesi e direttore del « Corpus Paravianum » in cui l'edizione del Marchesi apparve: Luigi Castiglioni. Le congetture che il Castiglioni comunicò privatamente al Marchesi, e che questi menzionò nell'apparato critico, non erano, dice il La Penna, « molto felici »: ma la tendenza anticonservatrice dell'amico « può aver contribuito a salvare Marchesi dalla superstizione » (p. 30). Non mi sento di escludere questa ipotesi; ma confesso che ci credo poco. Le decine e decine di congetture del Castiglioni, tranne forse una o due, erano, diciamo la verità, del tutto inutili, normalizzatrici a sproposito; il Castiglioni, congetturatore spesso troppo analogista come il suo maestro Vitelli, ma quasi sempre ottimo conoscitore dell'usus scribendi degli autori da lui presi in esame, non si era minimamente curato di studiare a fondo la lingua e lo [...]

[...] e parecchie ne omise nella seconda edizione (citandone, in cambio, poche altre, a dire il vero non migliori). Queste mie parole non suonino offesa né sottovalutazione nei riguardi di Castiglioni, uno dei piú acuti e rigorosi filologi del nostro secolo, certamente superiore a Marchesi come crítico testuale: ma non come critico testuale arnobiano.
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Di un altro impulso, secondo me molto piú valido, ricevuto da Marchesi il La Penna fa menzione: « i grandi progressi fatti nella conoscenza del latino tardo soprattutto grazie al Löfstedt, che proprio ad Arnobio aveva dedicato cure particolari ». Ora, il Löfstedt fu, come è noto (non solo nei suoi studi dedicati ad autori o a fenomeni linguistici singoli, ma nella grande opera Syntactica), un critico testuale conservatore, che molto imparò dal Vahlen e dal Wölfin e formò in Svezia una scuola di alto livello. C'è stato, nell'Ottocento e in buona parte del Novecento, un conservatorismo criticotestuale « all'italiana », che in gran parte era rinuncia a interpretare il testo, t[...]

[...]te il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filologismo (SM, in, pp. 1237, 1241; cfr. La Penna, p. 54). Ben diverso, anche se ebbe i suoi occasionali eccessi, era il conservatorismo criticotestuale della scuola svedese. Esso partiva dallo studio dei testi latini tardi, dai fatti lessicali e sintattici che da un lato anticipavano molti sviluppi delle lingue romanze, dall'altro si riconnettevano al latino arcaico, in parte per consapevole arcaismo, in parte maggiore per riemersione di una ininterrotta corrente di lingua popolare rimasta celata sotto la lingua letteraria degli scrittori dell'età classica. Non si trattava, quindi, da parte del Löfstedt e della sua scuola, di « venerazione [...]

[...] di Arnobio non è soltanto una continuazione piú cauta
e bibliograficamente piú aggiornata del vecchio conservatorismo « all'italiana » del Marchesi giovane: è una svolta e un'adesione a questo nuovo conservatorismo, particolarmente necessario per un autore come Arnobio, cosí pieno non solo di volgarismi e arcaismi, ma di espressioni personali, di hapax, quasi tutti disconosciuti dal mediocrissimo editore anteriore al
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Marchesi, August Reifferscheid. Per la prima volta nella sua vita Marchesi si mise a studiare un testo parola per parola, facendo i conti con la linguistica e la filologia fiorite fuori d'Italia, abbandonando (non nella concezione generale dei rapporti tra filologia e critica letteraria, ma nella tecnica filologica sí) il provincialismo. E non si limitò a far tesoro dei contributi altrui: notò egli per primo molte particolarità, inconcinnità sintattiche, stranezze individuali del latino di Arnobio (ricordo un solo esempio fra i tanti: l'uso di homo = corpus contrapposto all'anima, cfr. p[...]

[...] letteraria, ma nella tecnica filologica sí) il provincialismo. E non si limitò a far tesoro dei contributi altrui: notò egli per primo molte particolarità, inconcinnità sintattiche, stranezze individuali del latino di Arnobio (ricordo un solo esempio fra i tanti: l'uso di homo = corpus contrapposto all'anima, cfr. p. 51, 1 della 2a ed., e aggiungi ai passi citati dal Marchesi p. 58, 17 s.). Alcuni casi di conservatorismo eccessivo vi sono, e il La Penna ha quasi sempre ragione nel notarli (quasi sempre: io credo ancora, e tornerò eventualmente a discuterne altrove, che a pp. 3, 17; 26, 2527, 1; 399, 4 la lezione tramandata sia giusta). Ma sarebbe stato opportuno dare anche, qualche esempio di congetture felici (ne segnalo qualcuna: p. 35, 2 neque omni alioquin qui; 44, 24 et iudicationis; 88, 20 at; 90, 18 sermonis alicuius usus, forse meglio usum; 131, 1 nullo set; 152, 6 in nos; 181, 20 obscuritatibus submersa caliginis; 370, 7 factitant; mi fermo solo per esigenze di spazio, ma potrei citarne parecchie altre; l'indipendenza di giudizio de[...]

[...]nente la nuova edizione commentata di Arnobio a cura di Henri Le Bonniec, che occuperà parecchi volumi della collana delle « Belles Lettres ». A giudicare da alcuni articoli preparatori, in alcuni punti il Le Bonniec sarà ancor piú conservatore di Marchesi; credo anch'io che, mentre in qualche punto bisognerà emendare dove Marchesi ha conservato, in qualche altro dovrà avvenire il contrario; e molti resteranno i punti dubbi, nei quali, come dice La Penna (p. 101), « non si sa se attribuire la lezione a un errore di scriba o all'estro del retore ». Ma l'edizione di Marchesi rimarrà sempre una tappa molto importante negli studi arnobiani.
Io suppongo che quella che ho chiamato la sprovincializzazione filologica (e linguistica) di Marchesi si debba anche all'influsso degli allievi dell'università di Padova, di uno soprattutto, il solo vero allievo che Marchesi abbia avuto, Ezio Franceschini, che è poi diventato un insigne medievalista. Franceschini ha sempre parlato di Marchesi come di un maestro « irraggiungibile », che, nonostante la grande u[...]

[...]ogia « puntuale » che gli venne piú tardi. Io suppongo, diversamente da Franceschini (op. cit., p. 157), che sia stata questa svolta a non fargli ripubblicare in alcuno dei suoi volumi piú tardi la prolusione Filologia e filologismo, e, aggiungo, a fargli apprezzare lavori di filologia « arida » come gli Studi sui Topici del Riposati (dr. Franceschini, p. 44). Ma, detto tutto ciò, vorrei ancora pregare di non frainten
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 669
dermi: anche nell'ultimo Marchesi la filologia, pur tanto meglio apprezzata e praticata, rimase un'attività marginale.
9. Tommaso Fiore e gli « intellettuali disorganici ». — Se ora, dopo essermi soffermato cosí a lungo sul Marchesi di La Penna (mettendo a dura prova la pazienza dell'eventuale lettore), non mi soffermo sul piú breve saggio su Tommaso Fiore interprete di Virgilio (pp. 107131), non è perché non lo consideri degno del precedente, ma soltanto perché lo spazio ormai manca e perché in questo caso non avrei da esprimere osservazioni o aggiunte, ma soltanto consensi. Dirò solo che questo scritto, pur nella sua concisione, dà piú di quanto il titolo prometta: il La Penna non parla soltanto del saggio di Fiore su Virgilio, ma anche di quelli su SainteBeuve e su Tommaso Moro, e delle dispense di un suo corso universitario su Ovidio. Su Virgilio e su SainteBeuve le pagine del La Penna sono preziose anche per l'interpretazione diretta di questi autoli, non soltanto per comprendere e valutare il giudizio che ne dette Tommaso Fiore (del quale, d'altronde, il La Penna traccia di scorcio una caratterizzazione viva e convincente, di crociano forse troppo ortodosso, ma ricco anche di fermenti moralistici e antigiustificazionistici che fuoriescono dal crocianesimo). Convinto come sono da tempo che il concetto di « intellettuale organico », già non immune da forti pericoli in Gramsci stesso, è divenuto fuorviante da quando lo si è esteso ad ambiti e a problemi diversi da quelli in funzione dei quali Gramsci lo aveva ideato, ho letto con particolare gioia queste parole (p. 113 s.):
Anche nell'interpretare Virgilio forse egli [Fiore] guardava a quella catena di [...]

[...]on sia dominio di classe o esente dal pericolo di degenerare in dominio di classe, un organismo statale che coincida col libero sviluppo di tutta la società, sono una mèta lontana, forse raggiungibile solo quando lo stato sia estinto; finché restiamo lontani da quella mèta, è bene, anzi necessario, che ci sia una cultura non controllata e non manipolata dal potere.
Di questa cultura, attualmente minoritaria ma non disposta a capitolare, Antonio La Penna è oggi un rappresentante di primo piano, non solo in Italia. Nelle sue opere (nelle maggiori che ben conosciamo e ammiriamo, e in questa che soltanto per la mole, non per la forza dell'ingegno, è « minore ») l'obiettività della ricostruzione e del giudizio storico e la partecipazione a una battaglia politicoculturale non si contraddicono mai, ma si potenziano a vicenda. Perciò mi piace, al di là di episodiche divergenze su punti particolari, esprimergli ancora una volta il mio sostanziale accordo.
SEBASTIANO TIMPANARO



da «Belfagor» Antichità in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA
1. Marchesi, la filologia tedesca, il marxismo. — Nel maggio del 1979, in un convegno per il centenario della nascita di Concetto Marchesi e di Manara Valgimigli, Antonio La Penna lesse una relazione sulla formazione di Marchesi come critico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista[...]

[...]tico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista (e poi comunista) con una sincera esigenza di giustizia e di elevazione culturale per i diseredati e gli oppressi, eppure legato a una concezione aristocratica della vita e a un senso dell'arte come creazione assolutamente individuale; angosciato dal dubbio esistenziale, dal « mistero », da un bisogno di fede religiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate dal comunismo[...]

[...]igiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate dal comunismo « ufficiale »; ostile all'aridità del « filologismo », eppure, quando si dedicava a lavori filologici, seguace proprio di una filologia « arida », senza ricerca di connessioni con la storia politicoculturale e la critica letteraria. Giustamente il La Penna ritiene (p. 93 s.) che queste ed altre contraddizioni, se devono essere francamente messe in rilievo e criticate, non per questo inducano a un giudizio svalutativo su Marchesi:
Ci sono personalità coerenti, in cui la coerenza è facilitata dalla povertà spirituale; ce ne sono altre ricche e incoerenti, in cui l'incoerenza è aggravata dalla ricchezza stessa: Marchesi è tra queste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interpretare Marchesi, che fu cosí attento alle inquietudini, alle incoerenze, alle contraddizioni dell'animo umano. Neppure ne[...]

[...]ste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interpretare Marchesi, che fu cosí attento alle inquietudini, alle incoerenze, alle contraddizioni dell'animo umano. Neppure nel giudizio morale, per es. a proposito dei giuramenti prestati alla monarchia e poi al regime fascista o della sua permanenza nel rettorato dell'Università di Padova sotto la repubblica fascista, è lodevole ricorrere a for
* A. LA PENNA, Concetto Marchesi: la critica letteraria come scoperta dell'uomo; con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia (« Biblioteca di cultura », 152), 1980, pp. 138.



da a.n.[Anna Nozzoli], scheda sintetica di «Problemi» in KBD-Periodici: Rinascita 1975 - 8 - 29 - numero 34

Brano: Problemi
Rivista quadrimestrale diretta da Giuseppe Petronio,
redattori: A. M. Cirese, A. La Penna, C. Maltese, L. Martinelli,
G. Monaco, U. Petronio, G. Quazza, P. Rossi Monti, G. Statera,
G. Tinazzi, C. Vasoli, M. Vitale.
G. B. Palumbo editore, Palermo,
formato: cm. 22x14.
Periodico quadrimestrale di cultura, fondato a Roma nel 1967 da Giuseppe Petronio con la collaborazione di A. M. Cirese, A. La Penna, C. Maltese, G. Quazza, P. Rossi Monti, C. Vasoli, M. Vitale. Dal 1974 ai vecchi redattori, che hanno diretto Problemi fin dal primo numero, si sono affiancati L. Martinelli, G. Monaco, U. Petronio, G. Statera, G. Tinazzi, mentre anche la periodicità della rivista è mutata, divenendo da trimestrale, qual era in origine, quadrimestrale. Contemporaneamente anche il formato del perio dico è cambiato, modellandosi su quello della collana ProblemiLibri, sorta nel frattempo a fiancheggiare l'attività della rivista.
Problemi si connota sin dagli esordi nel 1967 per la carica polemica e rinnovatrice[...]

[...]e ai propositi espressi nell'editoriale del 1° numero, Problemi ha partecipato attivamente dal '67 ad oggi al dibattito culturale in atto, identificando, di volta in volta, le discipline e i temi di maggior rilievo, discutendoli su un ventaglio, íl più ampio possibile, di posizioni e di interessi. Pur nella varietà e nella ampiezza degli interventi (dalle indagini filosofiche di Vasoli e di Rossi Monti, alle ricerche sulla storiografia latina di La Penna, dai saggi di critica letteraria di G. Petronio ai contributi di linguistica di De Mauro, dagli articoli di critica cinematografica di Baldelli e di Ferrero alle inchieste sociologiche di Izzo, Statera, Anfossi), la rivista ha sempre cercato di unificare le diverse posizioni espresse nel sommario; anzi dal 1974 in poi si è tentato di incentrare ogni fascicolo su uno o due problemi particolari, analizzati sotto angolature diverse, mentre la sezione Interventi e polemiche resta riservata alla discussione delle ultime novità librarie. (a. n.)


Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine La Penna, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
<---Antonio La Penna <---Concetto Marchesi <---Discipline <---Filologia <---La Nuova Italia <---Linguistica <---Manara Valgimigli <---Marchesi <---Nuova Italia <---Padova <---Storia <---Storiografia <---Tommaso Fiore <---comunismo <---comunista <---dell'Università <---fascista <---filologia <---filologici <---filologismo <---italiana <---italiano <---marxismo <---metodologiche <---socialista <---staliniane <---ACI <---Adolfo Omodeo <---Agiografia <---Alessandro D'Ancona <---Althusser <---Ambrogio Donini <---Amministrazione <---Anna Kuliscioff <---Anna Maria Mozzoni <---Apologetico <---Apuleio <---Archivio <---Arnobio <---Arturo Graf <---Attilio Momigliano <---Auferre <---August Reifferscheid <---Avendo <---Baldelli <---Belfagor <---Belles Lettres <---Bellum Catilinae di Sallu <---Bergson <---Bertacchi <---Boys-Reymond <---Calcago <---Carataco <---Carlo Pascal <---Carlsson <---Carmelina Naselli <---Carmi <---Castiglioni <---Certo Marchesi <---Chiesa <---Ciò <---Contemporaneamente <---Corpus Paravianum <---Crispi <---D'Ancona <---Da Adriano <---Dante Nardo <---Das Ubersetzen <---De Mauro <---De Sanctis <---Dei <---Della Magia <---Di Cesare <---Difugere <---Dio <---Diritto <---Discipline umanistiche <---Dogmatica <---Dousa <---Dove La Penna <---Editori Riuniti <---Eduard Fraenkel <---Ein <---Elvio Cinna <---Emil Du Boys <---Epicuro <---Estetica <---Etica <---Eugenio Donadoni <---Ezio Franceschini <---Ferrarino <---Filologia classica <---Filosofia <---Fisica <---Fortleben di Lucano nel Medioevo <---Franceschini <---Francesco De Sanctis <---Francesco Flora <---Friedrich Leo <---Gaetano Trezza <---Genealogia <---Germania Tacito <---Giobbe di Rapisardi <---Giorgio Pasquali <---Giorgio Valgimigli <---Giornale storico della letteratura italiana <---Giovanni Bertacchi <---Giulio Preti <---Giuseppe Petronio <---Giussani <---Gnomon <---Graf <---Graf a Turati <---Graf-Rapisardi <---Gramsci <---Gronovius <---Guglielmo Ferrero <---Gunnar Carlsson <---Gustave Le <---Hagendahl 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